Dilma Rousseff, alle prese con la crisi economica, gli scandali per corruzione, le proteste spontanee o pilotate e la crescente stretta giudiziaria per la sua messa in stato di accusa insieme all’ex presidente Lula da Silva, aveva incontrato nei giorni scorsi i ministri del Pmdb per convincerli a restare, ma senza ottenere alcun risultato.
A causa delle crescenti difficoltà del governo la presidente ha annullato la sua visita prevista per questa settimana negli Stati Uniti. La leader del PT avrebbe dovuto recarsi a Washington oggi e domani per partecipare al summit mondiale sulla sicurezza nucleare, ma ha deciso di farsi sostituire dal suo vice Michel Temer, il leader di quel Pmdb che le ha voltato le spalle.
Intanto l’Ordine degli avvocati del Brasile (Oab) ha presentato al Congresso una nuova richiesta di impeachment per la presidente che si aggiunge alle 11 già registrate (con entusiasmo) dal presidente del Parlamento, Eduardo Cunha, avversario di Rousseff e a sua volta sotto inchiesta per corruzione. La nuova denuncia riguarda il presunto utilizzo di fondi pubblici per la campagna elettorale della leader petista del 2014 e cita anche la nomina a capo di Gabinetto dell’ex presidente Lula da Silva, anch’egli coinvolto in una inchiesta per corruzione, allo scopo di sottrarlo all’arresto.
Dal 18 marzo scorso, intanto, una speciale commissione di 65 deputati di tutti i partiti sta esaminando il procedimento di impeachment a carico della presidente Rousseff; secondo voci diffuse dalla stampa, 32 membri della commissione sarebbero a favore della destituzione, 31 contrari e 2 indecisi.
Mentre molti analisti fanno notare che l’attuale ambasciatrice statunitense in Brasile, Liliana Ayalde, è la stessa che in Paraguay coordinò qualche anno fa il ‘golpe istituzionale’ contro l’allora presidente progressista Fernando Lugo – destituito e sostituito da un esponente dell’oligarchia locale senza tanti complimenti – Rousseff e Lula, così come anche i settori sociali e politici di sinistra critici con il governo per la sua linea moderata e la mancata attuazione delle riforme promesse, denunciano la volontà da parte degli ambienti reazionari del paese di portare a termine un colpo di stato per via giudiziaria, sostenuti da Washington.
L’ex presidente Lula da Silva, accusato di occultamento di patrimonio e frode fiscale, continua a dichiararsi innocente e denuncia il carattere politico dell’inchiesta in corso su Petrobras, l’azienda energetica statale. “Onestamente, non ho alcun bisogno di una corte speciale perché non verrò mai processato, dal momento che non sono colpevole di alcunché”, ha dichiarato nei giorni scorsi. “L’impeachment senza basi legali, senza alcun crimine, è un colpo di Stato. Questa è la definizione esatta. Quello a cui stiamo assistendo è il tentativo di bloccare il mandato della presidente Dilma Rousseff grazie a un colpo di Stato, il cui solo obiettivo è di natura politica. Se il popolo brasiliano intende restare alla guida della Repubblica, deve esercitare la stessa pazienza che ho dimostrato io”, ha concluso Lula.
Scrive a questo proposito Bernard Guetta – non proprio un commentatore bolscevico – sull’edizione online de L’Internazionale di oggi:
“Otto brasiliani su dieci non vogliono più la presidente Dilma Rousseff, che rischia di essere destituita dai partiti d’opposizione e da una forza con cui governava fino a due giorni fa. Il motivo è il degrado della situazione economica e le rivelazioni sulle vicende di corruzione e finanziamenti illeciti dei partiti politici. Salvo nuove rivelazioni, però, Rousseff non è personalmente responsabile di alcuna malversazione, e l’unico rimprovero che le si può fare è quello di aver “truccato” i conti pubblici nel 2014, anno della sua rielezione, e di averlo fatto nuovamente nel 2015. Eppure, oltre al fatto che ci sono modi diversi di presentare un bilancio, la crisi dell’economia brasiliana non deriva dall’operato della presidente quanto piuttosto dalle difficoltà della Cina, che hanno provocato un crollo delle materie prime e messo in crisi tutti paesi con cui ha scambi commerciali. Non soltanto Dilma Rousseff non ha colpe per la crisi cinese, ma il suo Partito dei lavoratori, lo stesso dell’ex presidente Luiz Inácio Lula da Silva, può vantarsi di aver tirato fuori, nel primo decennio del secolo, quaranta milioni di persone dalla povertà e di aver garantito a lungo una forte crescita economica. Certo, questo cambiamento delle condizioni richiede nuove politiche e nuove teste, ma la presidente brasiliana non ha torto quando definisce “colpo di stato” la procedura di destituzione a cui è sottoposta, perché per quanto possa essere profondo, un momento di difficoltà economica non può giustificare l’interruzione forzata di un mandato presidenziale.
Questa procedura non ha nulla di illegale, ma è prevista dalla costituzione soltanto in caso di crimini commessi dal capo dello stato nell’esercizio delle sue funzioni, non certo per una gestione contestabile. Se siamo arrivati a tanto è perché si stanno avvicinando le elezioni locali e tutti i partiti vogliono sfruttare la rabbia popolare per trarne vantaggio e conquistare il potere, cacciando la presidente.
Questo modo di distorcere la costituzione è assolutamente irresponsabile, perché anziché costruire un’alternativa credibile i partiti si stanno già spartendo gli incarichi per arrivare alla maggioranza parlamentare dei due terzi che permetterebbe di destituire Dilma Rousseff, mentre il partito della presidente si limita a promettere portafogli e alti incarichi agli eletti che sceglieranno di appoggiare Rousseff”.
Assai più impietosa, invece, l’analisi proposta qualche giorno fa dalle pagine del Manifesto da Ricardo Antunes, sociologo e militante della sinistra brasiliana, a lungo membro del Partito dei Lavoratori e da qualche anno vicino invece al PSOL – Partido Socialismo e Liberdade – nato da una scissione di sinistra del PT.
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La crisi profonda del Brasile
Ricardo Antunes (da Il Manifesto del 24 marzo 2016)
I governi del PT (Lula e Dilma) sono stati un esempio eccezionale di rappresentazione degli interessi delle classi e frazioni dominanti, collegata a un progetto di miglioramenti specifici come la Borsa-Famiglia, per i salariati e i settori più impoveriti. Fino a quando lo scenario economico è stato favorevole, il paese sembrava camminare verso l’universo delle economie avanzate. Ma, con l’aggravarsi della crisi economica, sociale e politica, il mito è cominciato a crollare e oggi sta vivendo i suoi ultimi giorni.
È bene ricordare che il governo Dilma ha potuto contare sul significativo appoggio delle classi dominanti borghesi (delle frazioni industriale, finanziaria, dell’agrobusiness ecc.), soprattutto durante buona parte del suo primo mandato. Con l’intensificarsi della crisi, specialmente nel 2014, anno conclusivo del primo mandato, questo quadro ha cominciato a modificarsi. Già nelle elezioni di ottobre 2014 era possibile percepire una divisione maggiore tra le frazioni borghesi, una volta che il nuovo quadro recessivo anticipava la necessità – che i grandi capitali esigevano – di cambiamenti profondi nella politica economica per aggiustarsi al nuovo scenario.
Già alla fine del suo primo mandato, Dilma ha sperimentato una politica di riduzione degli interessi (che in Brasile sono tra i più alti del mondo), attraverso l’azione delle banche statali. Questo è stato più che sufficiente per cominciare a scontentare pezzi del capitale finanziario speculativo. E’ stato per questo che, subito dopo la vittoria elettorale (ottobre 2014), all’inizio del secondo mandato nel gennaio 2015, Dilma ha nominato come Ministro dell’Economia, principale responsabile della politica economica, un personaggio proveniente dalle maggiori banche private del paese. Ed è toccato a Joaquim Levy realizzare un aggiustamento fiscale profondamente recessivo, che è iniziato con l’appoggio di tutte le grandi frazioni del capitale, ma che, con l’intensificarsi della recessione e l’aumento esplosivo degli interessi, ha cominciato a risvegliare una crescente scontentezza dei settori industriali che vedono ridursi significativamente i propri profitti, nella misura in cui il PIL brasiliano si contrae e aumentano i livelli di indebitamento.
Veniamo ad oggi, marzo 2016, constatando che l’insoddisfazione degli imprenditori è divenuta totale e si è convertita in un forte blocco di opposizione politica al governo. Tutto questo accentua la crisi in tutte le sue dimensioni e il governo Dilma si trova completamente senza indirizzo. Da una settimana all’altra presenta proposte a cui non viene dato seguito, accrescendo ancor più la scontentezza in tutte le classi sociali – anche se spesso per motivi opposti – vedendo la sua base sociale, politica e parlamentare che si erode a ogni nuova misura. E, più questo succede, più il governo si piega a tutte le imposizioni del capitale. Di conseguenza, si sfilaccia ancora di più il già ristretto appoggio militante dei movimenti sociali, sindacali e politici, oggi praticamente ridotto ai militanti che agiscono nel PT, nella CUT e in alcuni movimenti sociali che danno un appoggio critico al governo Dilma, ma che sono contrari – come la quasi totalità dei partiti di sinistra (come PSOL e PCB) – al golpe parlamentare – con appoggio giudiziario – basato su una specie di giuridizzazione della politica che ha portato il Brasile a una variante di stato di eccezione giudiziaria.
Quel che si può dire quindi è che l’appoggio che Lula e Dilma hanno incontrato nei periodi precedenti è in una fase di completa corrosione in tutte le classi sociali. Nelle classi medie il quadro è abbastanza avverso al governo Dilma. I segmenti più conservatori – le classi medie tradizionali – stanno dirigendo le manifestazioni di strada che raggruppano dai settori liberali, ai conservatori, fino ai sostenitori della dittatura militare del 1964, passando per protofascisti e fascisti. E quanto più le classi medie si trovano ad un livello alto della scala sociale, più fortemente si oppongono – attraverso l’odio – al governo Dilma e al PT (e, di conseguenza) alle sinistre in generale.
Nelle classi medio basse il disincanto è totale: i salari si riducono, l’inflazione cresce, la disoccupazione sta tornando ad aumentare e, praticamente, non c’è più nessun segmento di questa classe medio bassa che si dia da fare nell’appoggiare il governo. Al contrario, sempre di più, aderiscono alle manifestazioni di opposizione al governo Dilma.
Nella classe lavoratrice il disincanto è esplosivo: nei settori che sono stati o ancora sono parte costitutiva del PT e, di conseguenza, base sociale dei suoi governi, ogni giorno c’è un processo di corrosione maggiore e quindi di perdita di questo appoggio. Chiaramente, molti di questi settori temono un golpe, con la possibile crescita elettorale della destra esplicitamente elitista, privatistica e finanziaria. Ma, diminuisce sempre più il numero di quei salariati, uomini e donne, che prima appoggiavano il governo del PT e che percepiscono che, le misure assunte dal secondo governo Dilma, penalizzano in modo via via più pesante la classe lavoratrice. Ci sono, quasi ogni giorno, numerose manifestazioni nelle periferie, chiaramente contrarie alle misure recessive e antipopolari del governo. Perfino negli strati più impoveriti, fuori da qualsiasi organizzazione (sindacale, sociale o politica), dove troviamo quelli che dipendono dall’assistenzialismo statale, favorito dalla concessione della Borsa-Famiglia, perfino in questi gruppi perde vigore in modo significativo l’appoggio precedentemente fornito al governo Dilma.
Non è difficile constatare che la crisi è di alta densità e profondità: sociale, perché l’insoddisfazione permea tutte le classi e frazioni di classe, anche se in modo differenziato e perfino antagonistico; politica, perché ha aperto una frattura (che sembra irreversibile) nella base partitica di appoggio al governo, visto che vari partiti e raggruppamenti politici, che poco tempo fa appoggiavano il governo, ora partecipano alla campagna aperta per l’impeachment. E istituzionale, perché ha portato al collocamento di settori del Parlamento brasiliano su posizioni di chiara opposizione al Governo, essendo quindi capace di aprire in qualsiasi momento un processo per la deposizione di Dilma Rousseff, con rischi di scontro tra potere Legislativo, Esecutivo e Giudiziario, oltre ad avere conseguenze dirette sul Supremo Tribunale Federale, chiamato quasi ogni giorno a dare l’interpretazione giudiziaria sul processo di impeachment, viste le tensioni e fratture all’interno del Parlamento. E, se tutto questo non bastasse, la crisi ha una forte matrice economica, che accrescerà la disoccupazione nei prossimi anni, con una forte riduzione dei salari e la creazione di un clima di incertezza che non può che finire per rivolgersi contro il governo e alimentare ulteriormente la crisi.
Oggi, concludendo questo testo, non abbiamo la benché minima possibilità di prevedere quale sarà il domani di Dilma: potrà mantenere il suo mandato fino al 2018? Questa ipotesi oggi sembra difficilissima, data l’intensità e la simultaneità delle crisi indicate sopra. Subirà un processo di impeachment? Sopporterà le pressioni esplosive a cui è sottoposta praticamente da tutte le classi sociali, dalle multiple frazioni della borghesia con il ruolo decisivo – nello spingere alle rivolte conservatrici – che hanno i media dominanti (televisione, giornali, radio ecc.)? Rinuncerà? O incontrerà forze che oggi non esistono per risollevarsi e superare la crisi attuale?
Il fatto che il più importante partito di sinistra della storia recente in Brasile, il PT, venga fagocitato e inghiottito dall’immenso ventaglio degli alleati politici di centro e di destra, che hanno ora cambiato posizione per distruggerlo, è insieme una tragedia e una farsa.
(Traduzione di Serena Romagnoli)
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