di Chiara Cruciati
Il modello al-Sisi ha ormai
plasmato il volto dell’Egitto: a cinque anni dalla caduta di Mubarak e
di una rivoluzione popolare che ha fatto storia, il paese è stato
ridotto all’ombra di se stesso. Preda di un terrorismo che più che
islamista è di Stato.
Il generale-presidente ha un obiettivo: far tornare il Cairo
il centro decisionale della politica araba. Per farlo infiamma la guerra
civile libica con il sostegno indefesso al generale Haftar, capo delle
forze armate del governo di Tobruk, sfrutta l’emergenza Isis per
ottenere aiuti militari e pulirsi la coscienza fuori, sventola sotto il
naso dell’Europa le ricchezze energetiche del paese. E rafforza i legami
con il Golfo: l’Arabia Saudita, la stessa che ha finanziato il colpo di
Stato anti-Fratelli Musulmani, oggi investe in Egitto ingenti somme.
Ieri il paese nordafricano ha fatto sapere di aver ricevuto un’altra offerta: 1.5 miliardi di dollari
per sostenere economicamente i progetti di sviluppo nella penisola del
Sinai. Tra i progetti ci sarà la costruzione di un'unversità, di zone
agricole e zone residenziali. Una somma consistente che si aggiunge agli
8 miliardi messi sul tavolo a dicembre per investimenti da portare
avanti nei prossimi 5 anni e l’accordo per fornire al Cairo greggio
nello stesso quinquennio.
Così la longa manus saudita si prende l’Egitto, schiacciato dalla crisi economica, e l’intero pacchetto:
sostegno nella guerra contro lo Yemen, nella repressione dei movimenti
islamisti legati alla Fratellanza, nelle politiche contro la Striscia di
Gaza governata da Hamas e nella battaglia per salvare i proventi del
petrolio, il cui prezzo è in caduta libera.
Non è un caso che il denaro proposto sarà investito in Sinai, zona
calda di attentati e scontri contro gruppi armati islamisti, la minaccia
che serve ad al-Sisi per stringere la morsa all’interno e all’esterno. Sabato
l’ultimo episodio: 15 poliziotti sono stati uccisi nell’attacco del
checkpoint al-Safa ad al-Arish, poi rivendicato dal gruppo “Sinai
Province”, legato allo Stato Islamico. L’attentato sarebbe
stato sferrato da un kamikaze con un camion-bomba e sarebbe seguito ad
un assalto che ha permesso ai miliziani di confiscare armi.
E se la penisola del Sinai resta sotto stato di emergenza, il resto
del paese vive quotidianamente nella morsa della censura e della
repressione. Nelle scorse settimane le luci si erano accese sulle
proteste dei medici egiziani, aperta sfida al regime che dal golpe del
2013 ha vietato manifestazioni di piazza: a metà febbraio 4mila dottori
hanno preso parte ai sit-in e le riunioni organizzate dal sindacato di
riferimento per combattere le violenze della polizia contro gli staff
ospedalieri. Chiedevano le dimissioni del ministro della Sanità,
dopo il pestaggio di due dottori dell’ospedale cariota di Matariya
all’inizio di gennaio da parte della polizia: i due, Ahmed
Abdullah e Moamen Abdel-Azzem, si erano rifiutati di contraffare un
referto e sono stati arrestati, dopo le botte.
Dopo un mese la situazione non è cambiata e sabato sono
tornati a protestare “una violenza cronica”, chiedendo inchieste contro i
poliziotti responsabili delle aggressioni. Il giorno dopo,
ieri, il Ministero dell’Interno ha convocato due dottori,
ufficiosamente, per registrare le loro testimonianze e decidere se
proseguire nelle indagini contro i poliziotti.
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