Il tema dell’emigrazione giovanile ha fornito il punto di partenza, nell’incontro con Marta Fana organizzato il 18 marzo da Noi Restiamo al Campus Einaudi di Torino, per un’analisi complessiva e un dibattito sulle forme che va assumendo il conflitto tra capitale e lavoro nel contesto europeo in generale, e italiano in particolare. All’intervento introduttivo con cui abbiamo presentato i punti fondamentali della nostra campagna e l’analisi generale su cui si basano, è seguito quello di Marta, che ha toccato e approfondito molti di questi nodi.
In primo luogo, l’emigrazione. Quella giovanile e qualificata è l’elemento di maggiore novità rispetto alle ondate di emigrazione che hanno interessato il nostro Paese in passato: i laureati italiani che oggi emigrano verso i Paesi del nord Europa si dividono tra un’élite culturale impiegata nella ricerca e una massa di giovani che, nonostante l’alto livello d’istruzione, sono costretti a lavori non qualificati e sottopagati. Per i secondi, l’emigrazione è una scelta resa quasi obbligata da un sistema produttivo arretrato che sempre meno riesce ad assorbire lavoratori qualificati, e dalla presenza, nei Paesi di arrivo, se non di prospettive lavorative soddisfacenti, quantomeno di garanzie sociali (vedi, per esempio, il diritto alla casa) inesistenti qui da noi.
Dal livello europeo a quello italiano: Marta ha spostato l’attenzione sugli elementi strutturali che, nella guerra tra capitali in Europa, sono alla base della sempre maggiore subalternità economica dell’Italia rispetto ai centri di concentrazione del capitale europeo (Francia e area tedesca allargata). A un processo di deindustrializzazione che, aggravato dalla crisi della piccola e media impresa, in Italia va avanti da trent’anni, ma che ha toccato un picco in seguito alla crisi del 2008 (con la perdita di più del 20% della capacità produttiva nazionale), si è risposto e si risponde con una serie di politiche che, invece di porvi un freno, hanno proposto, oltre a vecchi modelli produttivi incentrati sul mito della piccola e media impresa, un modello post-industriale costruito attorno al settore dei servizi. È proprio in questo settore (in particolare, in quello dei servizi alla persona) che si mostrano oggi con maggiore chiarezza politiche e motivi ideologici tipici dell’attuale fase di attacco al lavoro: start-up (riproposizione post-industriale della PMI), deflazione dei salari (attraverso forme sempre più “creative” di retribuzione: vedi voucher) e generalizzazione del precariato.
Il circolo vizioso è chiaro: alla crisi del vecchio modello produttivo della piccola e media impresa (costantemente riproposto a livello ideologico e oggetto di politiche d’incentivi con cui si tenta – inutilmente – di far fronte alla nuova concorrenza sul mercato mondiale), si pretende di rimediare, invece che con una ristrutturazione e una modernizzazione del sistema produttivo, da un lato imboccando la strada dell’economia post-industriale, dall’altro tentando di rivitalizzare strutture produttive superate; in ogni caso, abbattendo il costo del lavoro.
Alle debolezze strutturali dell’economia italiana, si aggiungono gli squilibri interni al sistema economico europeo, e normative comunitarie che vietano ogni intervento pubblico teso a sopperirvi attraverso il sostegno ai sistemi produttivi in difficoltà. Se in Paesi come la Francia lo stato è intervenuto anche pesantemente, quando è stato necessario (vedi la rinazionalizzazione dell’Airbus in crisi, con buona pace delle normative europee), in Italia si procede spediti sulla via della desertificazione industriale, tra vecchi miti imprenditoriali e paccottiglia ideologica postmoderna. Di fronte a un’Europa tanto rigida sulle norme, quanto flessibile nella loro applicazione con alcuni stati, viene in primo piano la questione politica, tanto nei rapporti tra stati membri e istituzioni europee, quanto nel conflitto di classe interno ai singoli Paesi.
Proprio la Francia, dove Marta svolge la propria attività di ricerca, ha fornito un termine di confronto con l’Italia, prendendo le mosse dalle lotte contro la nuova legge sul lavoro, calco transalpino del Jobs Act renziano. Licenziamenti facili, aumento delle ore lavorative e diminuzione degli straordinari, attacco ai sindacati in nome della contrattazione individuale: il capitale europeo suona la stessa musica in tutti i Paesi. Ciò che più stride, tra il nostro e la Francia, è la reazione del mondo del lavoro e delle organizzazioni politiche e sindacali: le mobilitazioni di massa in Francia non hanno visto nulla di analogo qui in Italia. Si sono indicate le ragioni di ciò nella persistenza,oltralpe, di una sinistra (il Front de Gauche) e d’un sindacato che riescono a conservare, bene o male, un’ottica di classe e un atteggiamento conflittuale, a fronte della sostanziale subalternità al partito di governo dell’unico sindacato di massa italiano, e del disinteresse mostrato dalla maggiore forza di opposizione (o presunta tale) riguardo alle tematiche del lavoro. Il lavoro non può difendersi, se non si organizza.
Ultimo punto toccato, nel dibattito seguito all’intervento di Marta, è stato quello del reddito minimo. Per quanto utile a garantire la sussistenza e una possibilità di vita dignitosa alle fasce più colpite dalla crisi e dall’attacco ai salari, deve essere chiaro che il terreno su cui si gioca la vita economica e sociale (e, dunque, il conflitto che da queste scaturisce) è quello della produzione: separare nettamente il lavoratore dal consumatore rischierebbe di lasciare il processo produttivo completamente in balìa del capitale, ormai padrone di determinare e dirigere i bisogni sociali. Ma il campo di battaglia, la difesa del lavoro, non si abbandona.
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