di Chiara Cruciati – Il Manifesto
Rojava balla da sola: ieri
il Partito dell’Unione Democratica (Pyd) ha annunciato quanto promesso,
la nascita di una regione federale nel nord della Siria. I tre cantoni
di Kobane, Afrin e Jazira con il loro modello di confederalismo
democratico si rendono autonomi da Damasco. Una decisione unilaterale,
non legittimata né a livello nazionale che internazionale, ma che avrà
conseguenze. Per due ragioni: l’ira del presidente turco Erdogan e la
realtà sul terreno.
Le ovvie reazioni alla dichiarazione di ieri sono state di
rifiuto. Da parte di tutti: Damasco, Stati Uniti e Turchia hanno
criticato, ognuno a modo suo, una mossa considerata affrettata e
unilaterale. Ma vanno sempre tenuti in considerazione gli equilibri
politici sul campo: Rojava ha saputo dare vita in pochi anni ad
un modello funzionante di democrazia dal basso, di cui fanno parte sì i
kurdi siriani, ma anche arabi, turkmeni e cristiani. E la loro capacità
militare (ma anche ideologica) di resistenza alla macchina da guerra
dello Stato Islamico ne hanno fatto un imprescindibile alleato, sia per
l’Occidente che per il fronte Mosca-Damasco.
Tanto che ieri, dal meeting del Pyd nella città di Rmeilan, ad Hasakah, è uscito un comunicato nel quale Rojava
si dice pronta a proseguire la lotta contro l’Isis al fianco di Usa e
forze governative. Perché, ribadiscono, la regione federale resterà
parte integrante dello Stato siriano: è stata ribattezzata, infatti, “Sistema democratico federale di Rojava-Siria del nord”.
Nonostante l’attesa presa di posizione di Damasco («una mossa
incostituzionale e senza valore», commenta il Ministero degli Esteri
siriano), non è campata in aria l’idea che nel futuro della Siria i
kurdi ottengano quell’autonomia che rincorrono da decenni e che – dicono
da Rmeilan – vorrebbero diventasse un modello per l’intero paese: non
una divisione federale su base etnica o religiosa, ma una struttura di
governo che si fondi sulla democrazia di base e di autogoverno delle
comunità. Un’idea ben diversa dalla divisione federale immaginata dalla
comunità internazionale e messa sul tavolo di Ginevra che andrebbe
invece a radicare i settarismi interni, invece di risolverli.
La dichiarazione va letta come mossa preventiva da parte di un
soggetto che, pur stretto alleato statunitense e russo, è escluso dai
negoziati di Ginevra. A tenerli fuori è stato il diktat del
presidente-sultano turco che probabilmente ora starà vedendo i sorci
verdi. La reazione non dovrebbe tardare ad arrivare, parte integrante
della campagna che si abbatte su tutto il Kurdistan storico, dall’Iraq
al sud est turco.
Contro il Pyd Ankara si muove da tempo. Non solo abbandonando i
civili assediati dall’Isis, non solo facendo passare dalla propria
porosa frontiera aiuti agli islamisti. Lo farebbe anche attraverso una
vera e propria milizia, “Nipoti di Saladino”, unità di kurdi integrata
dentro l’Esercito Libero Siriano. Kurdi contro kurdi: i Nipoti di Saladino ricevono sostegno da Ankara, raccontano loro stessi a Middle East Eye,
in chiave anti-Rojava perché contrari al modello politico dei tre
cantoni e perché convinti dell’alleanza tra Pyd e governo di Damasco.
L’obiettivo, racconta Mahmoud Abu Hamza, comandante della milizia
basata in Turchia, è impedire l’avanzata dell’Isis ma soprattutto
evitare ampliamenti territoriali del Pyd. Coperti dall’artiglieria
turca, i 600 miliziani kurdi del gruppo (provenienti da villaggi
della provincia di Aleppo) avrebbero già assunto il controllo di alcuni
villaggi tra Azaz e Jarabulus, corridoio lungo il confine occidentale
che la Turchia da tempo considera linea rossa invalicabile dalle Ypg.
Le comunità sono state strappate allo Stato Islamico, ieri oggetto del
voto della Camera Usa che ha definito quello commesso contro yazidi,
cristiani, sciiti iracheni e siriani «genocidio».
Ci sono dei kurdi che al governo turco piacciono: i Nipoti di
Saladino, ideologicamente avversi al Pkk, e quelli iracheni con cui
Ankara ha intrecciato fruttuose collaborazioni economiche. La Erbil del
presidente Barzani, dopotutto, non ha mai nascosto l’intenzione di
trasformare l’attuale autonomia in un’indipendenza, finalmente lo Stato
del Kurdistan ma nei soli confini iracheni, che tagli fuori Rojava e
Bakur. Qui a muoversi sono i movimenti di sinistra legati al Pkk: mentre
nel sud est della Turchia la brutale campagna militare in corso spinge
sempre più kurdi verso il sogno di un’entità autonoma, in Siria il sogno
è una realtà, seppur unilaterale.
La strategia anti-kurda di Ankara – militare, politica, mediatica –
non ha fiaccato la resistenza kurda. Eppure Erdogan ci prova, sfruttando
dichiarazioni politiche e attentati per portare acqua al mulino della
propaganda di Stato. Non funziona: per la seconda volta in poco
più di un mese il gruppo separatista kurdo Tak ha rivendicato l’attacco
di Ankara di domenica scorsa, come quello del mese precedente a
Istanbul, smontando il castello di carte governativo. Poche ore
dopo l’esplosione in cui sono morte 37 persone, Ankara si era
affrettata ad attribuire la colpa al Pkk e a lanciare una dura
rappresaglia a sud est.
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