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03/07/2016

Bangla Desh, il safari della strumentalizzazione


Nove cittadini italiani uccisi dall’altra parte del mondo, l’ombra distante dell’Isis o di altre organizzazioni integraliste, l’azzeramento – nell’informazione mainstream – di ogni analisi che vada oltre la manifestazione plateale del dolore (ovviamente drammaticamente vera nei familiari e negli amici, insopportabilmente di maniera nelle facce o nelle parole di circostanza delle “autorità”).

Sappiamo che gli assalitori erano ragazzi di buona famiglia, formati all’università, in un paese impazzito di miseria. Dunque non vale, in questo caso, la lettura che la lega violenza con motivazioni religiose a condizioni sociali disastrate. Vale piuttosto un ragionamento che individua in una classe dirigente in formazione il soggetto che cerca di “emanciparsi” da una condizione di subalternità rispetto al capitale straniero. Una sorta di “i nostri lavoratori li sfruttiamo noi”, non un’ansia di liberazione o di palingenesi sociale, che non distingue affatto tra un imprenditore, un interprete o un cuoco.

Una competizione, dunque, in cui sono “quelli che stanno sotto” ad essere ignorati da entrambi i contendenti, che li considerano allo stesso modo solo carne da lavoro.

Circa un anno fa, proprio a Dacca sono morti più di 1000 bambini nel crollo di una fabbrica fatiscente di sette piani. Erano piccoli operai del tessile, che per 2 euro al giorno lavoravano per gli imprenditori stranieri, anche italiani, autentici sfruttatori di bambini.

Vogliamo qui proporvi il fotoreportage di Claudio Montesano Casillas, pubblicato alcuni mesi fa sul quotidiano online Lettera 43, che illustra i livelli di sfruttamento imposti in Bangla Desh dagli “imprenditori”. Locali o multinazionali, ovviamente,  non può interessare di meno.












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