di Michele Giorgio
L’Isis è sulla bocca di
tutti. Ma erano davvero miliziani del Califfato i quattro uomini che due
giorni fa in Giordania, nel distretto meridionale di Karak che ospita
una stupenda fortezza crociata, hanno ucciso cinque poliziotti, tre
civili giordani e una turista canadese di 62 anni?
I dubbi non mancano, anche perché le autorità giordane continuano a non rivelare l’identità dei quattro assalitori – tutti rimasti uccisi negli scontri a fuoco con la polizia – che sono descritti soltanto come “terroristi” o “criminali fuorilegge”. Si sussurra che l’attacco a Karak sia stato opera di membri delle tribù locali.
Islamisti radicali ma non legati direttamente all’Isis,
espressione violenta del rancore crescente verso la monarchia e il
governo che si respira in alcune regioni della Giordania per la mancanza
di lavoro e per la marginalizzazione che rende la popolazione più
vulnerabile al reclutamento da parte di gruppi estremisti.
Sono centinaia – qualcuno dice migliaia – i giordani andati in Siria a
combattere, nei ranghi dei vari gruppi jihadisti, contro il governo di
Damasco.
«La gente percepisce la debolezza del potere, crede che il governo non sia in grado di contrastare tali azioni (armate).
Gli attacchi del passato erano limitati nei loro obiettivi e non
coinvolgevano i civili, le cose stanno cambiando. L’affermazione che la
Giordania sarebbe un’isola di stabilità non è più credibile», spiega
l’analista e docente di scienze politiche Labib Kamhawi.
Pur confinando con Iraq e Siria, la Giordania è riuscita ad evitare il coinvolgimento diretto nelle guerre ai suoi confini.
E sebbene faccia parte della Coalizione anti-Isis a guida Usa ed ospiti
corsi di addestramento per “ribelli” siriani finanziati da Washington,
ha adottato una politica di basso profilo che l’ha portata a tenere
aperti i contatti con i due grandi rivali nella regione: Iran e Arabia Ssaudita.
Il fuoco però cova sotto la cenere e la scarsa partecipazione
alle elezioni legislative dello scorso settembre hanno confermato lo
scetticismo di gran parte della popolazione verso le istituzioni
nazionali, percepite dai giordani come simboli di un potere
disinteressato ad avviare vere riforme democratiche e politiche
economiche per ridurre la povertà e la disoccupazione.
Una fetta di giordani, in gran parte giovani, invece si è avvicinata
al radicalismo religioso, in particolare a quello salafita,
allontanandosi dall’islamismo politico dei Fratelli Musulmani ritenuto
troppo “morbido”. Proprio nel sud del Paese quasi trent’anni fa esplose
la rivolta del pane e contro il carovita, che coinvolse la città beduina di Maan ma anche Karak e Tafila.
Le forze di sicurezza in quella occasione reagirono uccidendo cinque dimostranti. Una ferita che non si è mai rimarginata. Quella regione è ancora oggi una spina nel fianco della monarchia hashemita e la protesta popolare contro il regime si è saldata con le rivendicazioni religiose.
L’attacco armato di domenica è anche un esempio dell’impreparazione
dell’intelligence agli ordini di re Abdallah, spietata nei confronti dei
più deboli – profughi siriani (e palestinesi) – e poi colta di sorpresa
a Karak dove con ogni probabilità hanno sparato cittadini giordani non
affiliati direttamente all’Isis.
Proseguono intanto le indagini. Secondo una ricostruzione ufficiale
dell’attacco, tutto è cominciato quando una pattuglia della polizia ha
ricevuto la segnalazione di un incendio in una casa di Qatraneh,
nel distretto di Karak. Gli agenti hanno risposto a una chiamata e una
volta giunti in prossimità dell’abitazione sono stati accolti da
raffiche di mitra.
Due poliziotti sono rimasti feriti e gli aggressori sono
fuggiti in una macchina verso Karak, dove hanno di nuovo aperto il fuoco
contro un’altra pattuglia della polizia. Infine il terzo attacco, il
più grave, avvenuto nei pressi della fortezza crociata. Qui la
sparatoria ha provocato l’uccisione di sei agenti. «Quattro
uomini armati sono usciti da un’automobile e hanno aperto il fuoco
contro un gruppo di turisti, uccidendo la donna canadese e ferendo un
bambino. Poi hanno preso di mira altre persone e si sono rifugiati nel
castello (crociato). Poco dopo sono giunte le forze di sicurezza», ha
raccontato ai giornalisti un abitante di Karak, Wasfi al Habashneh.
Linda Vatcher è la 62enne canadese uccisa dal commando. Era
andata a far visita al figlio che lavora in Giordania e che è sfuggito
all’attacco.
Il ministro dell’interno Salamah Hamad ha detto che gli assalitori indossavano cinture esplosive
e che in un’area vicina sono state ritrovate bombe e armi. Questo
lascia credere che il commando avesse pianificato anche attacchi suicidi
e di provocare un numero di vittime più alto. Hamad ha smentito che un
gruppo di stranieri sia stato preso in ostaggio durante gli scontri a
fuoco.
A quanto pare i turisti si erano rifugiati all’interno della fortezza
durante la sparatoria. E sono usciti allo scoperto quando sono cessati
gli scambi di raffiche, senza mai aver avuto un contatto diretto con i
membri del commando.
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