Grande la confusione sotto al cielo?
La battuta d’arresto segnata dal voto popolare anti-Renzi è figlia di
una crisi più profonda di quanto potrebbe apparire a prima vista. Una
crisi economica con un apice decennale, che ha colpito con particolare
forza i paesi del sud Europa, ha mandato in frantumi un orizzonte di
stabilità incancrenito almeno dal 1945. Una crisi considerata
da alcuni economisti, non solo marxisti, come il dispiegamento di un
lungo periodo di stagnazione del modo di produzione capitalistico, delle
sue relazioni economiche e sociali, che figura un ancient regime defunto ma tenuto in vita dall’assenza di civiltà alternative ad esso.
Questa trama fondamentale apre importanti e inediti scenari per il
futuro. Il primo è che il vecchio mondo capitalistico, figlio dello
sviluppo novecentesco, non è più in grado di garantire la tenuta
sociale. La governance ordoliberale è la risposta a una crisi di
ingovernabilità profonda interna alle classi dirigenti, a uno
scollamento sociale tra ceti dirigenti e classi subalterne ancora tutto
da maturare e dalle ricadute ancora imprevedibili. La fine storica
dell’opzione socialdemocratica, centrata su un sistema sociale di
protezione e su una collaudata gestione del consenso attraverso le varie
forme della rappresentanza politica, sono un fatto ormai compiuto, dove
alla democrazia parlamentare succede un regime di governance
oligarchica.
Allora il 4 dicembre, al di là delle vicende contingenti, segna un
passaggio in cui la generalizzazione e l’approfondimento della crisi si
palesa assumendo contorni inediti, e si declina nella sua forma
populista, con le sue varianti inconcludenti e contraddittorie, ma pur
sempre in campo come uniche utilizzabili dal “popolo del No” –
che non è solo un No al referendum o a Renzi, ma è un No ad un modello
di sviluppo che si è trasformato in modello di sottosviluppo.
Il punto è che la sconfitta di Renzi al referendum sembrerebbe la
prima seria battuta d’arresto del regime liberista europeo, almeno in
Italia, ma segna anche un atteggiamento di profonda insofferenza delle
masse alla linea del massacro sociale, in una forma istintiva e
mistificata ma su cui va aperto un confronto. Il partito liberista,
ancora oggi personificato dal Pd e dalla stella traballante di Renzi, è
sfiduciato nel paese, incapace di andare oltre la narrazione
dell’ottimismo europeista e, come si è visto, inviso proprio alla gran
parte delle giovani generazioni a cui, teoricamente, con la filosofia
del nuovismo rottamatore, pensava di affidare la sua fortuna politica.
Già questo ci dice come cambiano in fretta gli scenari, come la dinamica
della crisi rende possibile ciò che fino a poco prima si riteneva, se
non impossibile, altamente improbabile.
Un anno fa il governo partiva con la riforma costituzionale con il
vento in poppa, con la campagna mediatica amica e interessata, con il
sostegno del cerchio magico dei poteri forti coesi e uniti su un punto:
concludere il processo delle controriforme e applicare uno dei punti
fondamentali della lettera Trichet-Draghi del 2011. Che il renzismo e il
blocco di potere attorno ad esso annaspi è un dato evidente, ma va
anche detto che Renzi e il replicante Gentiloni sono riusciti nel giro
di pochi giorni, in barba al voto popolare e all’umore del paese, a
segnare il punto di ridare immediatamente un nuovo governo al paese, con
la finalità di riorganizzare le forze in vista della tornata elettorale
e di arrivare a una legge elettorale in funzione dello sbarramento al
Movimento 5 stelle. Il blocco di potere liberista è stato colpito ma non
certo travolto, il tradimento del voto è avvenuto nell’effettivo
silenzio generale, con l’opposizione 5 Stelle sostanzialmente difensiva e
attendista, presa poi dai gravi (e rivelatori) problemi romani e con
una destra populista, per fortuna, ancora minoritaria e frammentata nel
paese.
Il post referendum ci lascia allora non solo la sensazione dello scollamento e della sfiducia, ma anche l’immagine di un sistema capace di gestire le sue crisi di governabilità meglio di quanto si potesse supporre. Ancora una volta, siamo in presenza di una mancata alternativa che rafforza il potere anche in presenza di evidenti segni di scollamento di questo con la società. Senza alternativa politica tangibile, il sistema può anche non convincere ma non si più vincere. Era ovvio non prevedere cadute rovinose, ma la tenuta del tutto a-storica del sistema politico italiano nel suo complesso è un segno di controtendenza da valutare attentamente.
Il post referendum ci lascia allora non solo la sensazione dello scollamento e della sfiducia, ma anche l’immagine di un sistema capace di gestire le sue crisi di governabilità meglio di quanto si potesse supporre. Ancora una volta, siamo in presenza di una mancata alternativa che rafforza il potere anche in presenza di evidenti segni di scollamento di questo con la società. Senza alternativa politica tangibile, il sistema può anche non convincere ma non si più vincere. Era ovvio non prevedere cadute rovinose, ma la tenuta del tutto a-storica del sistema politico italiano nel suo complesso è un segno di controtendenza da valutare attentamente.
In questo quadro instabile, dove la crisi avanza, manca una forza e
una visione soggettiva alternativa: ci concentriamo sulle modalità o i
linguaggi che ci dividono, senza mai fare uno sforzo nella direzione di
ciò che ci unisce come sinistra di classe e anticapitalista. Questa
mancanza non è più aggirabile: possiamo lamentarci del populismo, ma le
masse non rimarranno certo in attesa di una “sinistra assente”. Il
fallimento del populismo moltiplicherà i voti della reazione, e sarà
inutile piangere sul latte versato di fronte alla probabile nascita di
un Front national all’italiana, nel caso il M5S dovesse andare incontro ad un drastico ridimensionamento elettorale.
L’unico salto qualitativo degno di nota emerso dalla campagna
referendaria è stato il riuscito sciopero generale che ha portato
centinaia di migliaia di lavoratori, anche nel lavoro privato e in
alcune fabbriche importanti, a scioperare e bloccare le aree
metropolitane su una parola d’ordine politica, oltre che su un programma
sindacale. Di questi tempi non solo “non è poco”, ma è già molto,
sebbene non abbastanza. Questo è un elemento positivo, da cui dovremmo
ripartire, cercando di fare dei passi avanti puntando su due elementi.
Il primo è aprire una campagna politica per le elezioni immediate e per
le dimissioni del governo fotocopia Renzi-Gentiloni: oggi quello che
conta è rafforzare una feconda instabilità più che legittimare un
“ritorno all’ordine” pacificante. Il secondo è dare prosecuzione alla
campagna sociale che siamo riusciti a far vivere con lo sciopero
generale e dentro le manifestazioni nazionali per il No, costruendo un
programma politico e sociale di alternativa per segnare una svolta reale
nel nostro paese. Un programma senza rappresentanza politica, al
momento poco credibile, ma che si potrebbe sintetizzare in alcune misure
necessarie e in sintonia con la rivolta (elettorale) di un
pezzo importante di proletariato del paese: abolire il pareggio in
bilancio in costituzione stabilito nell’articolo 81; riformare
l’articolo 75 della Costituzione che vieta le consultazioni popolari in
materia di Trattati internazionali; ritiro delle leggi più antipopolari
emanate dal Partito democratico, come il Jobs Act, la “Buona scuola” o
lo “Sblocca Italia”. Non è certo un programma “in odore di socialismo”,
quanto dei propositi minimi su cui chiamare alla mobilitazione nel 2017,
anno denso di appuntamenti internazionali nel nostro paese.
Appuntamenti che potremmo cogliere soprattutto come sperimentazione di
terreni di lotta condivisi. Senza vegetare in coda agli umori del paese
impoverito, ma costruendo percorsi che partano da quegli umori per
dargli un senso politico progressivo.
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