di Chiara Cruciati – Il Manifesto
Yarmouk non c’è quasi
più: dei 180mila residenti che vivevano tra le vie strette del campo
profughi a sud di Damasco, simbolo della diaspora palestinese e per
decenni “capitale” del movimento di resistenza, non ne restano che
6mila.
La vita misera di un tempo ha lasciato spazio ad un incubo
ancora peggiore: da aprile lo Stato Islamico controlla stabilmente la
maggior parte del campo. Non se n’è mai andato nonostante la lotta che i
gruppi armati palestinesi hanno condotto un anno e mezzo fa per
cacciarlo: si è solo parzialmente ritirato dopo averlo conquistato tutto in pochi giorni.
Ci sono anche i qaedisti dell’ex al-Nusra e altri gruppi di
opposizione al governo di Assad, tutti impegnati in scontri quasi
quotidiani. Una faida interna che racconta molto della Siria di oggi: le
metastasi si stanno allargando in un corpo piagato. L’Isis è ancora
presente in Siria e controlla ampie porzioni del paese. Non solo la
“capitale” Raqqa o la ricca Deir Ezzor: gli islamisti sono nella
capitale.
«La situazione per i civili è estremamente difficile – dice ad al Jazeera
Wesam Sabaaneh, direttore della Fondazione Jafra, associazione
umanitaria che lavora a Yarmouk – L’Isis impone leggi severe, come
l’obbligo d'indossare il niqab. Ha occupato le scuole e compie
esecuzioni di civili per le strade. Non c’è acqua pulita, non si sono
medicine e le malattie si diffondono velocemente».
Si muore ogni giorno di violenza, malattie, malnutrizione: a metà
dicembre Hussein al-Misri di 70 anni ha perso la vita per mancanza di
medicinali, facendo salire a 1.277 il numero di civili morti nel campo dal 2011, chi di fame, chi di torture, chi di missili o esecuzioni.
A gennaio 2015 il mondo si commosse nel vedere l’immagine di una folla
silenziosa e arresa, in fila per un po’ di cibo. Oggi la situazione è la
stessa, se non peggiore.
Tra le 6mila e le 7mila persone deperiscono, rischiano la
vita per fame. Esattamente 6.250, dice l’Unwra. Erano 18mila due anni
fa, 15mila stimati ad aprile. Chi ha potuto è fuggito nei quartieri alla periferia del campo, Yalda, Babila e Beit Saham.
«Dal 13 febbraio al 7 aprile – ci spiega il portavoce
dell’agenzia Chris Gunness – abbiamo compiuto 21 missioni dentro Yalda a
favore di 6mila famiglie. Ma da maggio 2016 non abbiamo più avuto
accesso sicuro all’area per riprendere la distribuzione degli aiuti».
L’Onu è tanto lontana da Yarmouk da non riuscire neppure più a
monitorare la situazione: da febbraio nessun rapporto viene emesso per
aggiornare sulle condizioni dei civili.
A fine novembre l’esercito siriano aveva lanciato un ultimatum
all’Isis e all’ex al-Nusra perché abbandonassero subito Yarmouk: un mese
di tempo. Se ancora valido, sta scadendo. Ma è difficile dire se Damasco interverrà a breve in quella che è diventata un’enclave de facto dell’Isis nel cuore della Siria. Le truppe governative restano lungo il perimetro del campo,
lo assediano come dall’interno i jihadisti assediano i civili dal 2012
quando i due chilometri quadrati di Yarmouk furono trascinati dentro la
guerra anche dagli errori di valutazione e i tentennamenti di Olp e
Hamas.
Fuori da Yarmouk gli ultimatum sono sostituiti da un presunto
dialogo tra governo siriano e opposizioni: è quanto ha riportato ieri
l’agenzia Interfax citando il ministro degli Esteri russo Lavrov. Secondo Mosca, il dialogo è ufficiosamente partito.
Ma le opposizioni, quelle conosciute al tavolo di Ginevra, negano di
saperne qualcosa. L’Hnc, Alto Comitato per i negoziati, creatura saudita
estremamente composita (dai salafiti di Ahrar al-Sham e Jaysh al-Islam
ai laici della Coalizione Nazionale e i socialisti del National
Coordination Body), ha parlato per bocca dell’ex presidente della
Coalizione, George Sabra: «Non abbiamo niente a che vedere con questa
storia».
Ci si chiede chi siano le opposizioni con cui Damasco
negozierà, visto che fonti russe riportano di consultazioni già in corso
ad Ankara per giungere ad un cessate il fuoco nazionale, dopo quello
raggiunto ad Aleppo. Una domanda non facile a cui rispondere
vista l’assenza di soggetti credibili e rappresentativi del popolo
siriano: le opposizioni considerate laiche e legittime, fin dal 2011
sostenute dal fronte internazionale anti-Damasco, sono scomparse o
risucchiate dalle più potenti fazioni jihadiste.
Sullo sfondo stanno gli Stati Uniti. Una settimana fa il
presidente Obama ha firmato le modifiche all’Us Arms Export Control Act
che contiene l’allentamento delle restrizioni nell’invio di armi ai
gruppi armati siriani. Mosca ha bollato la legge come atto ostile
che potrebbe far arrivare missili anti-aerei ai gruppi jihadisti che
monopolizzano la guerra civile. Ma fonti dell’amministrazione Obama
specificano: le armi saranno dirette alle Forze Democratiche Siriane
guidate dai kurdi che stanno avanzando su Raqqa.
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