Appare quantomeno irrituale il cicaleccio – tardivo e strumentale – del governo e dei mass media sulla “colonizzazione” straniera dell'economia italiana. L'occasione è data dalla scalata ostile del gruppo francese Vivendi a Mediaset. Sui poco onorevoli risvolti politici della vicenda (salvare le aziende di Berlusconi per garantire una stampella al prossimo governo del Pd), abbiamo scritto in altra parte del giornale. Sul fatto che a Vivendi sia stata venduta la quota di maggioranza di una vera azienda “strategica” come Telecom solo pochi hanno dato dimostrazione di memoria e coerenza.
Resta invece da portare alla luce come l'incursione ostile di Vivendi sul sistema delle comunicazioni in Italia (Telecom e Mediaset) sia solo la punta dell'iceberg di un vero e proprio shopping a prezzo di saldo che le aziende francesi e tedesche hanno realizzato negli anni verso aziende italiane. Una svendita di patrimonio industriale, tecnologico e di sistemi che in qualche modo giustifica la categoria di colonizzazione usata tardivamente in questa occasione da alcuni commentatori.
Oggi le aziende francesi hanno partecipazioni azionarie su aziende quotate alla Borsa di Milano per un controvalore di 34,5 miliardi di euro. Il doppio di quelle italiane in Francia. Facendo un stock degli ultimi dieci anni, il rapporto diventa di cinque a uno (29 miliardi le acquisizioni francesi in Italia, 6,3 quelle italiane in Francia). Il 7% del listino di Piazza Affari parla francese, così come quasi un quinto delle partecipazione estere nelle aziende del Belpaese. In termini assoluti è assai meno di quanto controllino alcuni fondi di investimento statunitensi come Blackrock, Vanguard, Carlyle etc. La differenza è che quelli statunitensi sono investimenti solo finanziari, quelli francesi “mordono” invece la struttura industriale, creditizia e di brand del nostro paese.
Si tratta della Edf con Edison, di Lactalis con Parmalat, di Lvmh con Loro Piana e Bulgari, di Bnp Paribas e Crèdite Agricole con banche come Bnl e Cariparma. Meno bene sono andate le scorrerie di Auchan e Carrefour nella grande distribuzione in cui sono scesi al 15,8% del mercato. “I numeri dicono chiaramente che in questi anni il nostro paese è stato terra di conquista delle aziende francesi” commenta il Sole 24 Ore di giovedì.
Più infingarda è invece la strategia delle multinazionali tedesche, le quali già dai tempi dell'acquisizione della Miralanza da parte della Benckiser, hanno un atteggiamento più cannibalesco. Spesso acquisiscono aziende italiane per chiuderle e prendersi la loro quota di mercato. Secondo un rapporto di KPMG del 2015 negli ultimi sette anni, le imprese italiane cedute ai tedeschi sono 72, più di 10 all’anno. E la metà, aggiunge l’autorevole società di revisione olandese, apparteneva al comparto industriale, ultima in ordine di tempo l'Italcementi, per un valore complessivo delle acquisizioni pari a 15 miliardi di euro. Con una strategia chiara: le aziende tedesche puntano ad inglobare dei potenziali concorrenti, togliendoli dal mercato.
Si calcola che dal 2008 – l'anno in cui l'ultima crisi si è manifestata con forza – più di 850 aziende italiane secondo alcune fonti, sono passate sotto il controllo o la partecipazione decisiva di aziende straniere. Superfluo rammentare che a parte alcuni casi come Alitalia, la maggior parte sono andate in mano a multinazionali francesi e tedesche.
Ma perchè alle aziende straniere piace così tanto fare shopping di aziende italiane?
Secondo uno studio curato dal Censis insieme all'Associazione delle Banche Estere durante il governo Renzi, l’attrattività dell’Italia è dovuta principalmente alla qualità delle risorse umane (giudicate con un punteggio di 8,11 lungo una scala da 1 a 10), seguono la solidità del sistema bancario (7,24), scendono invece gli indicatori sulla stabilità politica (5,97), l’efficacia dell'azione di governo (5,95), la disponibilità di reti e infrastrutture logistiche (5,82), la flessibilità del mercato del lavoro (5,53). La perdurante compressione dei salari e l'approvazione del Jobs Act hanno fatto salire indubbiamente quest'ultimo indicatore. Eppure gli investimenti esteri in Italia non hanno prodotto i grandi benefici tanto decantati. Secondo un rapporto del European Attractiveness Survey, nel 2015 solo 1.383 posti di lavoro in più, niente rispetto ai 43mila in Gran Bretagna o ai 19.651 in Polonia o ai 7.126 della Spagna, addirittura la metà di quelli in Portogallo (3.469). Effetti della cannibalizzazione, appunto.
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