La maggiore differenza fra la situazione del 1993 e quella attuale sta nel contesto internazionale che stava costruendo un nuovo ordine mondiale monopolare,
in piena espansione finanziaria e con classi dirigenti che godevano di
un sufficiente (se non ampio) consenso popolare nel 1993 e che oggi è
l’esatto contrario.
Oggi, l’ordine mondiale monopolare è franato, ma non è stato sostituito da un diverso ordine mondiale multipolare.
Gli Usa conservano ancora consistenti residui dell’ordine monopolare:
il controllo della moneta di riferimento internazionale, una supremazia
militare scossa dalle sconfitte mediorientali ma che ne fanno ancora la
maggiore potenza mondiale e di molte lunghezze, la maggiore centrale
della finanza mondiale, il peso preponderante negli organismi
internazionali, ma non hanno più la forza di imporre unilateralmente
le decisioni della comunità internazionale, non riescono ad avere un
colpo d’ala che li trascini fuori dalla crisi e questo determina un
malessere interno che si è espresso nell’elezione di Trump.
D’altra parte, i Bric sono fortemente cresciuti
(e dietro di loro avanza una nuova schiera di emergenti come Messico,
Indonesia, Corea...) stanno diventando rispettabili potenze militari
(India e Cina) o lo stanno ri-diventando (Russia), ma iniziano a
risentire della crisi euro-americana, hanno perso lo slancio economico
di otto anni fa, non riescono a sovvertire la preponderanza americana.
Gli Usa continuano ad essere l’unica
superpotenza in grado di intervenire militarmente in ogni angolo del
pianeta, ma, a differenza del passato, devono fare i conti con la grande
potenza della regione in cui intervenissero; mentre gli emergenti hanno
la forza di imporsi come grande potenza di area regionale, ma non
riescono a ridurre al loro livello la super potenza americana. Abbiamo
una sola super potenza e quattro grandi potenze regionali.
Insomma gli Usa non hanno più la forza
imperiale di venti anni fa, ma hanno la forza per impedire che si
affermi un equilibrio multipolare basato su grandi potenze regionali e
senza nessuna super potenza. Ma i Brics hanno la forza per impedire
l’ordine monopolare, ma non quella per ricacciare gli Usa entro la
rispettiva area regionale.
Per di più, c’è una profonda
asimmetria fra i paesi occidentali, a regime liberaldemocratico e ad
economia liberista, nei quali la finanza ha un forte potere
condizionante, ed i paesi emergenti, in particolare Russia e Cina, dove il potere politico ha assai meno condizionamenti ed in cui sussistono molti elementi di capitalismo di stato.
E così non abbiamo due ipotesi di ordine
mondiale ma nessun ordine mondiale vigente, mentre i vari attori si
sfidano indirettamente in varie crisi locali sempre più numerose
(Ucraina, Siria, Iran, Oceano Pacifico, Oceano Indiano ecc.) che, per
ora, scaricano la tensione che si va accumulando e se ci si consente
l’ossimoro, siamo in una situazione di “stallo instabile”.
D’altra parte il blocco euro-americano è
stato investito da una crisi finanziaria, che è man mano divenuta
economica con i tassi occupazionali più bassi dell’ultimo trentennio,
una massiccia erosione dei salari ed una conseguente caduta dei consumi.
Il suo eccezionale prolungamento (di fatto, l’unica crisi paragonabile è
quella del 1929) sta ora ripercuotendosi sui paesi fornitori di materie
prime (Brasile in primo luogo, ma anche Russia) e sui paesi in cui
era stata delocalizzata la manifattura (in particolare in Cina, che
resiste in parte grazie alla tenuta del mercato interno). Di fronte a
questo andamento economico-finanziario, le banche centrali e quelle di
investimento, non hanno trovato altro rimedio che continue ondate di
liquidità che hanno avuto soprattutto l’effetto di ingigantire il debito
grazie al meccanismo degli interessi.
Le classi dirigenti rifiutano di prendere atto dell’origine della crisi:
la strutturazione iper-finanziaria dei mercati che ha trovato sfogo
prima nel crollo dei mutui sub-prime e dopo nello scoppio delle
successive bolle delle materie prime e nel gonfiamento dei debiti
pubblici. Dell’enorme massa di liquidità emessa ben poco è andato
all’economia reale (forse neppure il 10%) mentre il resto ha trovato
re-impieghi finanziari. Si è affermato un modello di “produzione di
denaro a mezzo denaro” saltando il passaggio della merce che nessuno ha
messo o mette in discussione. Così come non è messo in discussione
l’assurdo ordinamento tributario punitivo nei confronti dei ceti medi e
delle classi subalterne e premiale nei confronti delle grandi centrali
finanziarie. La mobilità incontrollata dei capitali ha di fatto concesso
al grande capitale privato di scegliersi lo stato cui pagare le tasse e
che, prevedibilmente, è sempre quello a minor costo. L’inevitabile
risultato è stata una fortissima pressione fiscale dei paesi più
indebitati (come Grecia, Portogallo ed Italia) che sta soffocando ogni
possibilità di ripresa di quei paesi.
Peraltro, questa sordità delle classi
dirigenti economiche ma anche politiche, è del tutto comprensibile dal
loro punto di vista, dato che rivedere le regole dell’ordinamento neo
liberista implicherebbe una secca perdita di potere delle classi
capitalistiche.
D’altra parte, la persistenza del
sistema di potere neo liberista è anche prodotta dalla assenza di una
opposizione interna al sistema politico: la completa omologazione delle
socialdemocrazie al neo liberismo, di cui, ormai, sono solo una piccola
variante, ha privato il sistema di ogni possibilità ai autocorrezione.
E questo è il principale motivo dell’ondata neo liberista che si è scatenata tanto in Europa, quanto negli Usa. La crisi continua a mordere e non c’è una ipotesi riformista, per cui l’elettorato esce dallo schema prefissato e vota partiti neo populisti prevalentemente di destra.
Questa prevalenza di una protesta di destra è fortemente assecondata da
due fattori: il fenomeno migrativo e la protesta contro un ordinamento
che, minando il principio di sovranità nazionale, svuota di significato
il principio della sovranità popolare e, di conseguenza, la democrazia.
Il fenomeno dell’immigrazione fornisce un comodo nemico su cui scaricare la colpa di tutto,
un po’ come con gli ebrei nella crisi degli anni trenta e, nello stesso
tempo, la coincidenza con il terrorismo jihadista fornisce alimento
all’industria della paura.
La sinistra, da questo punto di vista
(parlo della sinistra non liberista, ovviamente,) non riesce a muoversi
sui due terreni per retaggi ideologici che, privi di qualsiasi
aggiornamento alla situazione esistente, impediscono ogni chiarezza di
pensiero e di azione. Sulla questione dell’immigrazione, la sinistra
(dalla Linke a Podemos alla sinistra italiana) non riesce ad andare
oltre un genericissimo internazionalismo venato di buonismo, ma non è in
grado di prospettare una concreta politica di accoglienza ed
integrazione. Sulla critica alla globalizzazione, la sinistra teme ogni
presa di distanza da essa (in particolare in tema di unificazione
europea e moneta unica) come un ritorno al nazionalismo di cui diffida.
Il risultato è una sostanziale paralisi che rende irrilevante la
sinistra che non vuole i tecnocrati di Bruxelles e le politiche di
austerità, ma difende l’Euro (come se le due cose fossero estranee l’una
all’altra), e si accontenta di favoleggiare su “un nuovo Euro” che nei
fatti non può esistere. Il risultato è di diventare irrilevante nello
scontro fra l’ondata populista e l’establishment.
Per troppo tempo la sinistra ha smesso
di studiare e di discutere, accontentandosi di mandare in Parlamento un
drappello di politici di professione privi di ogni cultura politica. Ma
si può sempre ricominciare.
Dunque, ora abbiamo una ondata
di protesta che delegittima le classi dirigenti dall’interno, quel che
costituisce un elemento di fragilità in più ed una condizione favorevole
al crollo del sistemi politico italiano ancora più spiccata che nel
1992-93.
Molti spunti interessanti nell'analisi di Giannuli che però non capisco dove voglia andare a parare chiaramente, o meglio mi pare del tutto interna alla concezione del modo di produzione capitalista come sistema unico e quindi a politiche di sinistra riformiste.
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