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30/12/2016

Sondaggio. Per cambiare le cose la rivoluzione è meglio delle riforme?

Il grande maestro Mario Monicelli ci regalerebbe un sorriso leggendo la notizia. Lui che in una intervista storica disse che affidarsi alla speranza è sbagliato e che in Italia le cose andavano male perché non c'era stata una rivoluzione, si sentirebbe meno solo e maggiormente compreso. Un sondaggio dell'istituto demoscopico di Trieste SWG, svolto tra il 15 e il 16 dicembre scorso, ha rilevato alcuni dati estremamente interessanti nelle risposte degli intervistati. La domanda posta era la seguente:
"Alcuni ritengono che per cambiare veramente le cose in Italia ci vorrebbe una rivoluzione, altri pensano che occorra andare sulla strada delle riforme. Quale delle due posizioni condivide maggiormente"?
Il 53% dei “ceti bassi” della popolazione e il 35% di quelli alti ritengono che “per cambiare veramente le cose in Italia ci vorrebbe una rivoluzione”. Che siano sufficienti le riforme sono invece convinti il 24% dei ceti bassi e il 55% dei ceti alti. Non si pronunciano rispettivamente il 23% e il 10%.

“Le emozioni che si provano più spesso in questo periodo” per i ceti bassi sono di gran lunga il “disgusto” e la “rabbia”.


Alla domanda “secondo lei il nostro Paese, in questi anni, si sta modernizzando o sta regredendo”, solo l'8% dei ceti bassi e il 24% dei ceti alti ha risposto che si sta modernizzando, mentre rispettivamente il 78% ha risposto che sta regredendo.


Alla domanda “quali sono i due principali nemici del benessere degli italiani” per i ceti bassi al primo posto sono “i poteri forti”, al secondo i “corruttori”, al terzo le “banche” e solo, distanziato, all'ultimo posto il “populismo”.

La cautela sui sondaggi è doverosa, ma i dati emersi hanno alle spalle i risultati del referendum del 4 dicembre avvenuto dieci giorni prima del sondaggio effettuato. La composizione sociale di chi ritiene che una rivoluzione sarebbe una soluzione più efficace delle riforme, corrisponde a quella rivelatasi decisiva per la sconfitta del Si e la vittoria del No, ossia i settori popolari. I dati del sondaggio confermano come con la disoccupazione che avanza, con l'arretramento dello stato sociale, con l'aumento delle disuguaglianze e con la forbice sempre più ampia tra la ricchezza di pochi e la povertà di tanti, spingono settori sociali verso una maggiore radicalità.

La convinzione della maggioranza di coloro che vivono più pesantemente di altri questa condizione (quelli che vengono definiti nel sondaggio come i “ceti bassi” e che ormai comprendono gran parte della popolazione italiana) è sempre più orientata verso soluzioni ben diverse da quelle prospettate dai partiti tradizionali o dalla vecchia ideologia dominante in Italia e in Europa. Del resto anche la Corte Costituzionale, in una sua recentissima sentenza, ha affermato che prima del pareggio di bilancio vengono i bisogni primari, che sono diritti costituzionali.

Si vanno determinando oggettivamente condizioni di enorme interesse per rimettere in campo progetti tesi ad un cambiamento radicale della situazione. Mettere mano alla soggettività politica capace di interpretarle e organizzarle sul piano di una rottura con segno progressista, è diventata una urgenza dalla quale non ci si può più sottrarre. E' in tale scenario che assume una importanza strategica l'assemblea nazionale di Eurostop già convocata a Roma per sabato 28 gennaio. Contenuti e forme di un soggetto politico adeguato verranno discussi nel merito per dare risposta ad una domanda semplice ma ormai ineludibile: se non ora, quando?

Per il sondaggio vedi: qui.




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