Lo
scorso 22 dicembre con l’evacuazione delle milizie dai quartieri
orientali della città si è chiusa la Battaglia di Aleppo. Una battaglia
durata ben 53 mesi. Un lettore mediamente attento, che avesse voluto
comprendere le ragioni e gli attori di quella battaglia e più in
generale le cause e le conseguenze del conflitto siriano, avrebbe però
trovato non poche difficoltà a farsi un’idea leggendo o ascoltando i
servizi dei media mainstream. E non per caso. La guerra, è quasi banale
sottolinearlo, è sempre atroce, e lo è ancor di più quando è combattuta
fra civili che spesso vengono utilizzati da una parte o dall’altra come
strumento di pressione o come scudi umani. Ma in una guerra anche
l’informazione, è qui forse è un po’ meno banale ricordarlo, si
trasforma in un campo di battaglia. Un
terreno strategico in cui si gioca una partita non meno importante di
quella combattuta con le armi vere e proprie. Siamo convinti, come il
Che, che essere capaci di sentire nel più profondo qualunque ingiustizia commessa contro chiunque in qualunque parte del mondo
sia una delle qualità più belle dei rivoluzionari. Se però si rimane
esclusivamente nel campo delle emozioni, suscitate ad arte da chi oggi
ne detiene il monopolio, il rischio che si corre è quello di restare
eterne vittime di quel “terrorismo multimediale dell’indignazione”
con cui l’opinione pubblica mondiale negli ultimi decenni è stata
manipolata e piegata ad ogni avventura neocoloniale. Se davvero, come da
più parti si dice, si vuole combattere la guerra e i suoi orrori,
allora occorre sforzarsi di comprendere le cause dei conflitti,
determinarne le ragioni materiali ed economiche e lavorare politicamente
per abbatterle. La battaglia di Aleppo ha trasformato quella che era
iniziata come una guerra per procura contro l’Iran in una “mini guerra
globale”, per usare un’efficace definizione del Washington Post. Una
guerra che ha finito per coinvolgere direttamente anche la Russia e
l’Iran e che modificherà gli equilibri mediorientali in una direzione
diversa da quella che veniva auspicata da Washington e dalla UE solo 5
anni fa. Le primavere arabe del 2011 erano state viste dalle cancellerie
occidentali come un’opportunità da cogliere al volo per ridisegnare il
Medioriente a proprio uso e consumo. Su questo progetto si erano
inserite le ambizioni delle diverse potenze regionali (Turchia, Arabia
Saudita, Qatar…) determinate a volgere a loro favore i nuovi equilibri
di potenza che si andavano delineando. Facendo leva sulle mobilitazioni
popolari si è così lavorato da più parti ad un massiccio “regime change”
i cui effetti a catena non solo non si sono esauriti, ma si
protrarranno per anni. Dopo il precedente libico era dunque
inimmaginabile che la Russia rimanesse nuovamente alla finestra
assistendo inerme alla perdita del suo unico punto d’appoggio navale nel
Mediterraneo, ed era altrettanto inimmaginabile un’inazione da parte
dell’Iran di fronte alla possibile caduta della cosiddetta mezzaluna
sciita e al suo relativo isolamento. E’ difficile, se non impossibile,
prevedere quale piega prenderanno adesso gli eventi. Dopo la definitiva
liberazione di Aleppo dalle milizie jihadiste, la cosiddetta “Siria
utile” è tornata sotto il controllo di Bashar al-Asad, ma se si
procederà verso una partizione di fatto dello stato siriano, oppure
verso un recupero totale, molto dipenderà dalle intenzioni della Russia.
Mosca in questi anni ha riaffermato un ruolo da attore protagonista
sullo scacchiere mediorientale, lo ha fatto grazie alla spregiudicatezza
diplomatica dimostrata a fronte dell’impaccio statunitense, ma
soprattutto lo ha fatto grazie ad uno sforzo bellico considerevole e si
trova ora nella condizione di dover uscire rapidamente dal conflitto per
rischiare di rimanervi impantanata. Il pericolo è che un intervento
prolungato faccia emergere quella debolezza economica che finora è stata
mascherata dai successi militari. Non è un caso quindi che mentre il
governo siriano e l’Iran spingono per puntare verso Idlib, Mosca abbia
assunto un atteggiamento più cauto su cui pesa, probabilmente, anche il
nuovo rapporto con la Turchia di Erdogan. Questo è l’altro elemento che
peserà nei mesi a venire. Secondo alcuni analisti la relativa
indifferenza mostrata da Ankara rispetto alle sorti di Aleppo è infatti
il frutto della distensione, se non della vera e propria convergenza,
tra i due paesi dopo la crisi del novembre 2015. Tanto che sarebbero
stati proprio i russi ad avvisare Erdogan del tentativo di colpo di
stato dello scorso luglio. Agli osservatori più attenti non sarà
sfuggito come l’affluenza massiccia di militanti di Al Nusra ad Aleppo
durante l’estate sia stata tacitamente avallata da Stati Uniti, Arabia
Saudita e Qatar ma non dalla Turchia. La contropartita per questo nuovo
posizionamento potrebbe dunque essere l’aver dato il via libera alla
realizzazione di un “Sunnistan”, anche in chiave anti curda, esteso da
Idlib a Mosul e sotto la diretta influenza turca. La realizzazione in
sedicesimi di quel progetto “neottomano” che cinque anni fa aveva spinto
Erdogan ad abbandonare l’alleanza con Bashar al-Asad. In tal caso la
cantonizzazione della Siria, così come quella dell’Iraq, potrebbe essere
più che un’ipotesi remota. Veniamo però anche rapidamente (e
tristemente) a noi. La Battaglia di Aleppo ha nuovamente mostrato tutti i
limiti di una sinistra occidentale ormai priva di una propria chiave di
lettura del mondo che non sia quella “umanitaria”. Una sinistra che non
pensa più autonomamente e che inevitabilmente finisce per “farsi
pensare” dalle classi dominanti. Forse qualcuno un giorno si prenderà la
briga di indicarci finalmente chi sarebbero i fantomatici ribelli
“laici e progressisti” di Aleppo che avremmo dovuto sostenere. A naso ci
viene da pensare che in caso di sconfitta dell’esercito siriano non
avremmo visto sfilare per le strade del centro una street parade per i
diritti Lgbt con le bandiere arcobaleno, quanto piuttosto una teoria di
toyota con le bandiere nere. A meno che quelle barbe lunghe che per mesi
si sono fatte scudo dei civili non fossero salafiti ma hipster. E se
queste sono le alternative in campo anche il nènèismo di alcuni compagni
rischia di suonare un po’ pilatesco. Un concetto che le migliaia di
cittadini di Aleppo scesi in piazza per festeggiare la liberazione hanno
compreso molto bene, visto che lo hanno vissuto sulla propria pelle. Un
concetto che perfino un quotidiano cattolico come L’Avvenire,
non certo un covo di rossobruni filoputiniani, è stato in grado di
cogliere e che stride con le accuse di genocidio che ancora oggi
campeggiano sulle pagine social di diversi compagni: “nel quartiere
cristiano armeno di Aleppo, Aziziya, è stato innalzato un albero di
Natale, il più alto della Siria, il primo dal 2012. Un segno di
speranza, in una città diventato simbolo della crudeltà di tutte le
guerre. Nel video tratto dal profilo Facebook di Sos Chretien d’Orient,
rilanciato da Asia News, si vede una banda composta da giovani armeno
vestiti da Babbo Natale; la loro esibizione è avvenuta martedì sera.
Asia News commenta felicemente questa notizia, spiegando che Aleppo si è
liberata in questi giorni da jihadisti e ribelli, che nonostante tutti
gli sforzi, non sono riusciti a «uccidere lo spirito di tolleranza e
convivenza tra religioni ed etnie». In piazza, a festeggiare insieme la
liberazione della città dai jihadisti e il Natale che si avvicina,
c’erano musulmani e cristiani, in barba al proselitismo esercitato dai
gruppi salafiti e jihadisti i quali per 4 anni «hanno cercato di imporre
un islam takfiri e wahhabita». Le persone originarie di Aleppo
ritornate in città dopo la liberazione sono circa un milione”.
Per una trattazione più esaustiva delle cause endogene ed esogene del disordine mediorientale rimandiamo ad un nostro documento scritto ormai un anno fa.
Nessun commento:
Posta un commento