L'uccisione di un ambasciatore nell'ultimo secolo, avrebbe provocato reazioni ben più pesanti di quello a cui stiamo assistendo dopo l'omicidio in diretta dell'ambasciatore russo in Turchia. La memoria remota va all'Arciduca assassinato a Sarajevo nel 1914, quella più recente va alla prima invasione israeliana del Libano nel 1982, che usò come casus belli il ferimento dell'ambasciatore israeliano a Londra. La ridda di ipotesi sul mandante o le motivazioni dell'uccisione dell'ambasciatore russo alimenteranno per mesi una discussione che diventerebbe sterile se non venisse messa in connessione con il contesto in cui questo attentato è avvenuto.
Il tir omicida di Berlino non ha invece scelto nessun obiettivo mirato, "accontentandosi" di far vivere l'esperienza della guerra in casa anche a chi la vede solo in televisione senza più provare neppure il brivido dell'orrore, e soprattutto senza chiedersi dove siano e cosa stiano facendo i "nostri ragazzi in missione all'estero". Anche qui ci si potrebbe facilmente perdere in ricostruzioni dietrologiche all'infinito, ma "il contesto" – oltre che la coincidenza temporale – lega Ankara e Berlino così strettamente da sconsigliare ogni bla bla.
La guerra in Siria, in corso ormai dal 2011, non è la causa o almeno non è la sola. Il Sole 24 Ore ci ricorda come all'inizio di quella guerra, altri due ambasciatori – quello statunitense e quello francese – passeggiassero per le strade di Hama insieme ai "ribelli anti-Assad". Un segnale inequivocabile di schieramento e corresponsabilità in quello che è accaduto negli ultimi cinque anni in quel paese. In Libia nel 2012 venne ucciso l'ambasciatore Usa che aveva sostenuto apertamente i ribelli anti-Gheddafi e spianato la strada all'intervento militare dei paesi Nato nel 2011, che ha frantumato in mille pezzi il paese.
Trasformare i conflitti interni in operazioni strategiche di rovesciamento di regimi, governi, mappa geopolitica, tracciati delle pipelines energetiche, è la costante alla quale hanno lavorato per anni le maggiori potenze imperialiste del mondo. In Africa ancora prima che in Medio Oriente passando per l'Europa dell'est. In troppi hanno già dimenticato ad esempio il carattere “costituente” dello smembramento e della guerra nella ex Jugoslavia. Non solo venne coniato l'ossimoro della “guerra umanitaria”, ma venne sancito il diritto di riscrivere la mappa del mondo e la sorte dei popoli sulla base di interessi superiori, in larga parte coincidente con quelli delle maggiori potenze economiche e militari e dei loro alleati regionali.
E' in questo buco nero della storia che sono state alimentate le ambizioni che hanno via via attratto altre potenze, “solo” regionali, nella frenesia di prendersi parte del bottino. Non solo Israele, ma anche Turchia, Arabia Saudita, Iran, stanno giocando la loro partita in Siria, Iraq, Libano, Libia etc. Le alleanze sono spesso temporanee, con bruschi rovesciamenti che si ripercuotono sui gruppi di riferimento nei vari paesi, spesso rappresentati da gruppi etnici, clan tribali o religiosi. Il protettore di ieri si trasforma così nel macellaio di oggi, dando vita ad una coda di massacri, vendette, recriminazioni.
Un gioco sporco che le potenze regionali hanno imparato da quelle più grandi, quelle che prima hanno disegnato e imposto i confini del Medio Oriente e dell'Africa nell'epoca coloniale (Gran Bretagna, Francia, Italia, Belgio) e poi si sono viste imporre una nuova gerarchia dalla potenza imperialista egemone dalla metà del XX Secolo: gli Stati Uniti.
Ma, come dice Kissinger, l'ordine mondiale che abbiamo conosciuto negli ultimi decenni è entrato in una crisi irreversibile, e gli Usa – l'unica superpotenza di ieri – non hanno più l'egemonia. Possono giocare solo la carta della supremazia militare. Un fattore talmente evidente che stiamo assistendo al boom delle spese militari in tutto il mondo, inclusa l'Unione Europea.
Ma se questa è la tendenza, possiamo continuare a sottovalutare il rischio di guerra? Allontaniamo per un attimo l'idea di un conflitto generalizzato tra grandi potenze. L'esistenza e la diffusione delle armi nucleari (in quantità rilevanti o comunque “dissuasive”) pone tale prospettiva sulla via della “rovina comune delle classi in lotta”, che Marx non elimina ma inquadra come barbarie estrema, la cui sola alternativa è il socialismo. Parliamo invece delle “cento guerre” che abbiamo di fronte. Quelle dei massacri in Medio Oriente o in Africa, che spingono milioni di persone a fuggire, a cercare protezione in altri paesi, perché il proprio è ridotto a macerie e scannatoio.
La saga delle ipocrisie è indecente. Vedere i governi di Stati Uniti e Francia indignarsi per Aleppo dopo aver taciuto sui massacri statunitensi a Falluja, su quelli israeliani a Gaza (o sui bombardamenti evidentemente “petalosi” su Mosul) è qualcosa di assai più fetido di un doppio standard.
La divisione oggi non passa tra chi si commuove per Aleppo e chi no. Troppo cinico e troppo falso. La divisione passa tra chi sta maturando la consapevolezza della fase storica in cui siamo entrati ed agisce affinché non si trasformi in carneficina e chi pensa che il proprio statu quo vada difeso a tutti i costi, anche istigando al massacro o lasciando massacrare la gente. Purché fuori dalla porta di casa propria...
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