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19/12/2016

Jihad del Khorasan: la battaglia ideale e teologica

Contro il nazionalismo taliban – Certo, un conto è parlare di liberazione in Afghanistan, altro è farlo in Pakistan e Iran. Il Paese dell’Hindu Kush ha tuttora il piede straniero sulla testa, le truppe Nato sono ufficialmente ridotte a 13.000 unità, ma resta sul territorio ancora un numero imprecisato di contractors, dal 2010 molto utilizzati soprattutto nei pattugliamenti e anche in certe operazioni militari. E soprattutto restano le nove basi aeree ristrutturate e rafforzate, utili per un controllo strategico nel cuore dell’Asia. Contro ogni dichiarazione di smobilitazione difficilmente gli statunitensi abbandoneranno quelle basi. I governi fantoccio che si susseguono a Kabul, s’attirano odi di più parti della popolazione cosicché la propaganda di resistenza può aver vita facile. E potrà scontrarsi anche col nuovo ruolo dei talebani qualora, una volta inglobati nel governo, dovessero assumere posizioni di difesa politiche e militari dell’establishment. Ancora non c’è nulla di tutto ciò, ma i desideri governativi ambirebbero un simile sbocco per salvare la propria ambigua esistenza più che le sorti del Paese. Un simile scenario ripeterebbe ciò che è accaduto con alcuni signori della guerra che, in barba ai pregressi crimini, si son visti inglobati nelle Istituzioni, entrando come deputati nella Loya Jirga e addirittura diventando vicepresidenti della Repubblica Islamica. Perciò i jihadisti lanciano una polemica che prepara lo scontro aperto coi talebani definendoli “sporchi nazionalisti”, l’attacco si lega direttamente al progetto del Daesh del Khorasan che interpreterebbe correttamente il fine della lotta islamista.

Internazionalismo islamico – Il principio espresso dal sistema politico del Califfato va a rompere i confini degli stati nazionali creati ad arte dall’imperialismo, prima britannico, francese e russo poi nord americano nel piccolo e grande Medio Oriente. Stravolge le carte geografiche stilate dai Sykes-Picot, azzera le linee Durand, rilancia il jihad contemporaneo nei luoghi dov’esso è rinato coi mujaheddin anti sovietici. Insomma pensa di creare in questi luoghi quel che Al Baghdadi tenta di fare fra Raqqa e Mosul. Però destabilizzare due colossi come Pakistan e Iran non è impresa facile, per la militarizzazione di cui entrambi dispongono, per il reciproco orientamento di pensare in grande, puntando a un ruolo egemonico regionale. Ciascuno con una propria storia, con contraddizioni estreme: la forza del partito combattente iraniano sostenuta dal clero più conservatore che vede i pasdaran attualmente impegnati nel conflitto siriano, la radicata presenza dell’esercito pakistano in una nazione di 180 milioni di persone. Creare un Califfato del Khorasan strappando lembi o ampie aree di territorio a entrambi non pare impresa facile. Ovviamente si può condurre una campagna di logoramento colpendone la vita civile con attentati, in Pakistan sta accadendo da tempo, si può condurre una guerriglia nelle zone dove la tecnologia militare non può essere dispiegata in pieno o con facilità. L’esempio è quello del Waziristan, dove agiscono i Tahreek, i talebani dissidenti e anche del Baluchistan. La propaganda dell’Islamic State Khorasan Province pensa a diffondersi fra uzbeki e tajiki, coinvolgendo due ex stati sovietici con realtà diverse e instabili. Ne verrebbero coinvolte talune zone dell’una e dell’altra nazione; l’Uzbekistan è ben vasto, e seppure oscillante fra varie satrapie politiche non ha comunque quella povertà e disoccupazione con cui devono fare i conti sei milioni di tajiki. Oltre quei confini, in territorio cinese, c’è l’etnia uigura, undici milioni di musulmani negli ultimi anni in fermento contro il centralismo di Pechino.

Alleanze e conflitti Eppure non è l’elemento socio-economico quello al quale si rivolge la comunicazione del jihadismo del Khorasan che, anzi, su questioni pratiche come la coltivazione dell’oppio in Afghanistan (tollerata dai talebani che ci guadagnano e fanno guadagnare i contadini) hanno lanciato un contrasto politico-teologico. Il vero Islam vieta quel mercimonio dannoso al fisico e allo spirito e ciò dimostra la corruzione degli attuali Talib, al pari dei governanti che vogliono cooptarli, tutti asserviti all’imperialismo. Anche su temi simili il cerchio si chiude facilmente, percorrendo la via ideologica non priva di retorica che ogni fondamentalismo diffonde a piene mani. Occorrerà vedere se le censure rivolte ai “combattenti traditori” e agli “ulama cortigiani” si tradurranno in conflitto incessante e reiterato, e se la campagna di reclutamento permetterà all’Iskp d’ingrossare le fila a danno di talebani ammorbiditi da inserimenti governativi. Bisognerà vedere se e come la struttura preparerà le nuove leve, finora la propaganda ha mostrato solo l’alfabetizzazione jihadista di adolescenti. In questa fase solo le trasmigrazioni, com’è accaduto per alcuni gruppi di taliban dissidenti, assicurano combattenti preparati e determinati, seppure gli esempi di Siria, Iraq, Libia stanno a dimostrare che la fase d’avvio della guerriglia può esser nutrita da combattenti stranieri. Poi servono gli autoctoni. Ma chi proviene dal Pakistan e ancor più dalla groviera del confine delle Fata può considerarsi di casa oltre il confine afghano. Comunque si guarda anche ad altre figure: soprattutto ai tanti giovani abbandonati a se stessi come gli ancora numerosi orfani, spesso frutto dei “danni collaterali” e in vari casi anche di di quelli prodotti dagli attacchi degli insorgenti.

Nuovi possibili focolai Può un ragazzo che ha perso i parenti per mano talebana o jihadista sposare un progetto di guerriglia? Secondo i proclami del Califfato può farlo se è un buon musulmano e se ha chiaro il ruolo di ciascuna delle forze in campo. Gli viene proposto un riscatto di fronte a un’esistenza impura e subalterna. Questa narrazione romantica sulla “missione” da compiere, che si ricollega alla tradizione dei mujaheddin di quella regione che a fine anni Settanta hanno iniziato il percorso di ribellione e liberazione, è rivolto alla gente di villaggi negli ultimi anni non toccati da conflitti, ad esempio nel Khorasan iraniano. Ma l’invito ad ampliare l’orizzonte, compiendo una rimappatura della battaglia jihadista e spostandola verso un oriente sempre più vasto può in alcune aree di confine, se si pensa al Tajikistan, impensierire la stessa Cina che in Oriente sta di casa e in certo Medio Oriente, come quello afghano, è in prima fila nella corsa a particolari materie prime con le sue industrie estrattive (China Metallurgical Group in testa). Il business ha però bisogno di territori tranquilli e pacificati, e già verso gli attacchi talebani i diplomatici cinesi hanno manifestato fastidio e preoccupazione al governo di Kabul. Cooptare guerriglieri tajiki da parte dell’Iskp può essere un progetto contro cui la Cina ha alzato il suo formidabile antidoto degli affari che si chiama Shangai Cooperation Organization, il cartello economico rivolto a varie ex repubbliche sovietiche (il Tajikistan è fra queste) esteso pure alla Russia. Il tutto per tagliare le gambe al progetto del terrorismo islamico. Ai teorizzatori del Califfato orientale che toccano le corde della fede, i grandi colossi rispondono con le tematiche del mercato. Non dovessero bastare, Putin conta sullo sperimentato protocollo siriano, bisognerà vedere cosa farà Xi Jinping.

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