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30/12/2016

Il killer del lavoro, nel lungo termine, non è la Cina. E’ la robotizzazione


Il primo lavoro che Sherry Johnson, 56 anni, ha perso a causa della robotizzazione, è stato a Marietta, nello stato della Georgia, nella sede del giornale locale, dove il suo compito era di rifornire di carta le stampanti e di ordinare le pagine stampate. Tempo dopo vide le macchine imparare a poco a poco a fare il suo lavoro; quindi le vide utilizzate in un reparto di produzione merci, dove venivano costruiti macchinari per la respirazione, poi ancora nell'inventario di un magazzino, ed infine in un archivio.

La lavoratrice da noi intervistata ha dichiarato “Quello che mi fa veramente incazzare è... Ma se lo chiedono come possiamo costruirci una vita, in questo modo?” Sherry quindi si è iscritta ad un corso per computer a Goodwill, ma anche questo non è bastato: “I ventenni, i trentenni, sono molto più aggiornati di noi in quella roba lì, noi non ci siamo cresciuti insieme, come è stato per loro,” dichiara la Johnson, che ora ha sviluppato un piccolo handicap, e vive in un quartiere di case popolari a Jefferson City, in Tennessee.

Il neo eletto Presidente USA, Donald J. Trump, in campagna elettorale, promise ai lavoratori come la Johnson che avrebbe riportato in auge lavori come quelli che sapevano fare prima, frenando il commercio internazionale, le delocalizzazioni e reprimendo l’immigrazione. Ma gli economisti, invece, sono convinti che la minaccia peggiore per il lavoro sia rappresentata da qualcosa d’altro: la robotizzazione.

“Chiaramente, l’avvento della robotizzazione nel mondo del lavoro è stato fondamentale, ma a lungo andare, non può diventare così 'invadente'”, afferma Lawrence Katz, professore di economia ad Harvard e studioso del lavoro e di innovazione tecnologica.

Nessun candidato, durante la campagna elettorale, si è occupato molto della robotizzazione. La tecnologia non è un’antagonista facile e gestibile come può esserlo la Cina o il Messico, non esiste un modo definito, semplice, per sbarazzarsene, e per di più, molte delle compagnie del settore, sono dislocate negli Stati Uniti, che ne beneficiano nei modi più diversi.

Il neo Presidente Trump, lo scorso mercoledì, ha dichiarato ad un gruppo di dirigenti di alcune compagnie del settore tecnologico: “Vogliamo che voi non molliate, che continuiate con la ricerca nell’innovazione. Qualsiasi cosa potremo fare per aiutare questo processo, saremo pronti a farla in ogni momento.”

Andrew F. Puzder, punta di diamante nel Gabinetto Trump (nel quale ricopre la carica di segretario per il lavoro), ed amministratore delegato della CKE Restaurants (catena di ristoranti specializzata in piatti messicani), in un’intervista rilasciata a marzo al “Business Insider” (rivista americana on line) ha esaltato le virtù dei robot, a differenza di quelle della razza umana dichiarando: “Sono sempre educati, cortesi, riescono a far comprare anche più del necessario al cliente, non prendono mai una vacanza, non sono mai in ritardo, tra di loro non esistono casi di discriminazione razziale, sessuale o di età, mai un caso di infedeltà, dovuto ad arrivismo personale, nelle aziende robotizzate.”

Secondo una ricerca di alcuni economisti, tra cui Daron Acemoglu e David Autor del M.I.T. (Massachusetts Institute of Technology), la globalizzazione è palesemente responsabile per la perdita di alcuni tipi di lavoro, particolarmente se ci riferiamo ai rapporti commerciali con la Cina durante gli anni 2000, rapporti che portarono ad una rapida e netta perdita di posti di lavoro, che si attestò intorno a circa 2 milioni/2 milioni e mezzo. Nello specifico, Autor, in un paper pubblicato a Gennaio 2016, rilevò che i lavoratori delle zone del paese più interessate dalle importazioni, sono generalmente più toccati dalla disoccupazione, ed avranno un reddito ridotto per il resto della loro vita. Nel tempo, la robotizzazione ha avuto un effetto molto più forte di quello della globalizzazione, che prima o poi avrebbe comunque eliminato questi settori lavorativi, ha dichiarato in un’intervista lo stesso Autor, che sottolinea: “Un po’ dipende dalla globalizzazione [la perdita dei posti di lavoro N.d.T.], ma molto di più dal fatto che abbiamo sempre meno bisogno di lavoratori per fare lo stesso lavoro,” ha dichiarato l’economista, ed infine, “ sostanzialmente, oramai i lavoratori sono solo dei supervisori delle macchine.”

Quando Greg Hayes, amministratore delegato della United Technologies (multinazionale americana attiva in diversi settori, perciò detta, “conglomerata”) concordò nell'investire in tecnologia ben 16 milioni di dollari in una delle sue fabbriche “Carrier” (produzione ed installazione di impianti di climatizzazione e refrigerazione commerciale), come parte di un accordo con Trump, teso a mantenere alcuni siti industriali in Indiana, invece di delocalizzare in Messico, egli dichiarò che il denaro vero, il cosiddetto profitto, scaturisce sempre dalla robotizzazione.

E ultimamente ha dichiarato alla CNBC (stazione radiotelevisiva del New Jersey), senza tanti peli sulla lingua: “Quello che fondamentalmente vuol dire tutto questo è che avremo sempre meno posti di lavoro disponibili”.

Prendiamo l’industria dell’acciaio, ad esempio: sono stati bruciati 400.000 posti di lavoro, il 75% della sua forza lavoro, tra il 1962 ed il 2005. Ma le spedizioni non calano, secondo uno studio pubblicato lo scorso anno dall’American Economic Review. La ragione sta in una nuova tecnologia, detta “minimill”*. Per gli autori della ricerca, Allan Collard-Wexler della Duke University e Jan De Loecker della Princeton University, l’impatto di questa nuova tecnologia sul mercato è stato ed è ancora molto forte: pensiamo al controllo sulle pratiche gestionali, ma anche alle perdite di posti di lavoro nel Midwest, al commercio internazionale, ma anche agli stipendi, diminuiti sensibilmente.

Un’altra analisi redatta dalla Ball State University, ha attribuito la causa della perdita di posti di lavoro per il 13% circa agli scambi commerciali con gli altri paesi, e, per il restante, ad una crescente produttività, ma in virtù proprio della robotizzazione, quindi, si può dire, “drogata”. Il settore dell’abbigliamento è stato colpito maggiormente dal commercio internazionale, quindi dalla concorrenza di altri mercati – si evidenzia nello studio – mentre il mercato dei computer e della produzione di componenti elettroniche sono stati colpiti dai progressi raggiunti dalla tecnologia stessa.

Con il tempo, la robotizzazione ha avuto generalmente un lieto fine: mentre da una parte cancellava posti di lavoro, ne creava altri in settori differenti; ma alcuni esperti si preoccupano che questa volta potrebbe essere differente: anche se l’economia è migliorata, le attività ed i salari, per un grande segmento di lavoratori – in particolare uomini senza titolo universitario che di solito si dedicavano a lavori manuali – non hanno avuto una ripresa.

Daron Acemoglu, economista turco, nel numero di maggio di un periodico economico, si è imbattuto in una ricerca dalla quale ha appreso che, nel migliore dei casi, la robotizzazione lascia la prima generazione di lavoratori colpiti da questo processo di “modernizzazione” in una sorta di sbandamento, di stato confusionale, dal momento che ci si accorge d’un tratto di non avere le competenze necessarie per ricoprire mansioni e compiti più complessi.

Robert Stilwell, 35 anni di Evansville, nell’Indiana, appartiene a questa generazione: non si è diplomato alle scuole superiori ed in fabbrica costruiva parti di auto e di strumenti, le imballava e le caricava sui camion. Dopo essere stato licenziato, ha trovato lavoro come cassiere presso un minimarket, che ha voluto dire accettare un salario molto ridotto.

“Mi ero abituato ad avere un lavoro veramente molto buono e gratificante, e mi piaceva la gente con la quale interagivo, finché non sono stato superato da una macchina; a quel punto sono stato mollato,” questa la sua dichiarazione.

L’ultima occupazione di Dennis Kriebel, invece, è stata di supervisore in una fabbrica di profilati di alluminio, dove aveva passato dieci anni a forare parti per automobili e trattori; alla fine, circa cinque anni fa, ha perso il suo posto di lavoro per colpa di un robot.

Kriebel, ora cinquantacinquenne, afferma che “tutto quello che facciamo, può essere fatto anche da un robot, se quest’ultimo viene programmato da qualcuno in grado di farlo.” Ora Kriebel vive a Youngstown, in Ohio, la città a cui Bruce Springsteen ha dedicato una delle più belle ballate dell’album “The ghost of Tom Joad”**. Springsteen canta così: ”Seven hundred tons of metal a day/Now sir you tell me the world’s changed”… “Settecento tonnellate di metallo al giorno/Adesso, padrone, dimmi che il mondo è cambiato.”

Da allora, Kriebel sbarca a malapena il lunario facendo lavori occasionali. Purtroppo oggigiorno, in fabbrica, molte delle nuove mansioni richiedono competenze tecniche specifiche, e lui non ha un computer e neanche intende acquistarlo.

Esperti del lavoro affermano che esistono vari modi per aiutare i lavoratori nel periodo di transizione, una sorta di limbo, in cui hanno perso il lavoro e sono stati sostituiti dai robot: programmi di riqualificazione professionale, aiuto dai sindacati, la creazione di maggiori opportunità di lavoro nel settore pubblico, o un reddito minimo garantito più alto, maggiori detrazioni fiscali per i redditi da lavoro, e, per i lavoratori della prossima generazione, più corsi di laurea a disposizione. Lo scorso martedì, la Casa Bianca ha pubblicato un rapporto sulla robotizzazione e l’economia, in cui si propone una migliore formazione, dalla prima infanzia all’età adulta, un aggiornamento della rete di solidarietà sociale con strumenti come un salario assicurato, e così via; ma il neo presidente Trump, ha già dichiarato che le politiche di questo tipo che metterà in campo non saranno molte.

“Solo se permetteremo al mercato privato di robotizzarsi, senza alcun sostegno economico da parte dello Stato, otterremo la soluzione ad una serie di problemi, dall’immigrazione al commercio internazionale, persino al forte impatto della tecnologia,” ha dichiarato a suo tempo, l’economista Lawrence Katz, a capo dell’Ufficio Economico del Dipartimento del Lavoro, sotto la Presidenza Clinton.

I cambiamenti non hanno interessato solo il campo del lavoro manuale: i computer hanno imparato rapidamente a fare anche il lavoro dei “colletti bianchi”, e persino quello del personale del settore servizi. La tecnologia del momento, potrebbe automatizzare il 45% delle attività svolte da personale retribuito, secondo un rapporto di McKinsey, (società internazionale di consulenza manageriale) apparso nel mese di Luglio. A minor rischio sono i lavori che richiedono creatività, o la cura e la gestione di persone.

La lavoratrice di cui raccontavamo all’inizio, Sherry Johnson, ora in Tennessee, ha dichiarato che il suo lavoro preferito ed allo stesso tempo meglio retribuito ($8.65 l’ora) è prendersi cura dei cuccioli, in un rifugio per animali; questo è un lavoro che meno si adatta ad essere compiuto da una macchina: “Spero che un computer non riesca a fare tutto questo, anche se alcune macchine sono già in grado di cambiare la carta sporca delle gabbie e dare affetto ed attenzione ai cuccioli.”

Dal New York Times, Claire Cain Miller
Traduzione e cura di Francesco Spataro


Note
*In italiano mini-acciaieria. Stabilimento siderurgico che utilizza una particolare tecnologia (fornace ad arco elettrico) che lo rende più flessibile al mercato; per questa ragione viene usata questa tecnologia in periodi di sovrapproduzione o crisi del mercato.

**”Il fantasma di Tom Joad”, album del 1995 di Bruce Springsteen, dedicato al periodo della Grande Depressione USA, del 1929. Tom Joad, a cui è dedicato l’ album, è anche il personaggio principale del libro di John Steinbeck “Furore”, un bracciante che si trova a vagabondare per il Grande Paese ed a combattere la Grande Crisi economica che colpì gli USA dopo il crollo di Wall Street e che creò milioni di disoccupati.

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