Erano nell’aria, sono arrivate appena terminato l’incontro tra “Parsitalia” (la società costruttrice di Luca Parnasi) e la giunta comunale: Paolo Berdini si è dimesso. Il timing tra le parole del vice-sindaco Luca Bergamo: “una revisione del progetto che ha dei caratteri fortemente innovativi”, e le dichiarazioni dell’ex assessore:
“mentre le periferie sprofondano in un degrado senza fine e aumenta
l’emergenza abitativa, l’unica preoccupazione sembra essere lo stadio
della Roma”, è tutto fuorché causale. E’ la resa di fronte al potere
palazzinaro. E’ la definitiva normalizzazione di un movimento politico
che chiude ad ogni ipotesi di alternativa politica cittadina. E’
l’eterno ritorno dell’uguale. Scriveva Antonio Cederna, nel 1953, nel
suo celeberrimo articolo sui Gangster dell’Appia: “In
prossimità della via Appia e dell’Ardeatina sorgerà una fascia di
«villini» e di «villini signorili» a quattro piani, quindi una fascia di
«palazzine» a cinque e sei piani, quindi verso la via Cristoforo
Colombo un ampio agglomerato a costruzione intensiva, con edifici di
almeno otto piani, per un’altezza massima di ventotto metri.
A parte i consueti abusi, come l’aumento dei piani grazie ai finti
seminterrati, gli attici «arretrati», ecc., il nuovo quartiere incomberà
ad altezze scalate sulla via Appia, divenuta misero budello ai suoi
piedi, tanto più che essa in quel tratto è a quota 16-18, mentre il
terreno del nuovo quartiere arriva a quota 30-40. Qualche esigua e
frammentaria zona di rispetto «assoluto» (un centinaio di metri sulla
carta) e di rispetto «con particolar ilimitazioni», servirà soltanto ad
attestare l’ipocrisia dei progettisti”.
Replicherà, due anni più tardi, Manlio Cancogni nel suo altrettanto celebre Capitale corrotta, nazione infetta: “Se
Roma non ha sviluppo industriale la colpa è di chi specula sulle aree;
se ventottomila famiglie vivono nelle baracche della Tuscolana, della
Prenestina o del Campo Parioli, la colpa è degli speculatori sulle aree;
ma se trecentomila famiglie di professionisti, commercianti, impiegati,
operai pagano affitti sproporzionati alle loro possibilità o vivono in
case vecchie, sovraffollate, sprovviste di comfort moderni, la colpa è
degli speculatori delle aree”. E così via, da Italo Insolera a Vezio De
Lucia, da Ludovico Quaroni a Leonardo Benevolo. Il ratto di Roma, sempre
uguale a se stesso, sempre giustificato dall’affannosa rincorsa alla
modernità, dal mito dello sviluppo senza progresso, del lavoro senza
occupazione, dei profitti senza dignità.
Nonostante questa giunta sia politicamente morta da mesi, da quando,
cioè, il M5S ha deciso di sacrificare Roma al suo interesse elettorale
nazionale, queste dimissioni ne segnano la pietra tombale. Non è in
discussione la qualità di Berdini, come uomo, come urbanista o come
politico. Non è in discussione neanche il suo operato come assessore in
questi otto mesi. Ribadiamo il nostro scetticismo in chi si presentava
come portavoce degli interessi della città popolare e si è comportato in
maniera diametralmente opposta. Ma l’argine che, nonostante tutto,
Berdini rappresentava alla completa normalizzazione dell’attuale giunta,
era un argine oggettivo. Non viene sostituito un assessore per la sua
incompetenza o ingenuità: si sostituisce un’idea di città ad un’altra.
E’ la città dei Parnasi, dei Caltagirone e dei Toti; dei Marchini e
degli Scarpellini; la città del Mezzaroma e dei Bonifaci, degli
Armellini e dei Caporlingua a trionfare, ipotecando il corso politico
dell’ennesima giunta commissariata dal mattone. Nel silenzio delle inchieste a orologeria e del gossip giornalaro, oggi Roma si sveglia più povera e con meno speranze.
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