di Stefano Mauro
Il decreto presidenziale
Usa “Muslim Ban” – la legge anti-immigrazione islamica – continua a far
discutere dentro e fuori i confini nazionali. La stampa statunitense,
in particolare, analizza principalmente due aspetti: il primo riguarda la legittimità di un decreto “razzista e discriminatorio” nei confronti di cittadini di paesi considerati “scomodi” e “pericolosi” per l’amministrazione Trump. Il secondo, invece, è il criterio di scelta dei paesi e l’esclusione di una nazione come l’Arabia Saudita.
Per un decreto, infatti, che mira a combattere l’ingresso di terroristi “camuffati da rifugiati” – secondo il presidente americano
Trump –, non è stato preso in considerazione il regno dei Saud,
principale sponsor dello jihadismo globale (da Al Qa’ida a Daesh). Negli
attentati dell’11 settembre 2001, su 19 dirottatori 15 erano proprio
provenienti dall’Arabia Saudita. Così come, dopo la pubblicazione dei
dossier secretati per 15 anni dall’amministrazione del presidente George
W. Bush e pubblicati nel luglio 2016, sono emerse le responsabilità
dirette di diplomatici sauditi ed i loro legami con al Qa’ida.
La Cnn, in un suo programma, ha evidenziato come sia anomalo
il fatto di aver presentato una legge contro “gli immigrati rifugiati
per favorire la sicurezza nazionale” quando “gli attentati di San
Bernardino, Orlando, Boston e New York sono stati compiuti non da
rifugiati, ma da immigrati con altro status”. Nella strage di San
Bernardino, ad esempio, i due attentatori di origini pachistane “si
erano sposati e radicalizzati proprio in Arabia Saudita”.
Il quotidiano inglese The Guardian aggiunge che lo
stesso Trump in campagna elettorale aveva dichiarato di voler
“irrigidire i rapporti con i sauditi” e di “voler applicare la legge
Jasta”, norma che riguarda la richiesta di risarcimento contro l’Arabia
Saudita per le migliaia di vittime dell’11 settembre.
Dopo la pubblicazione della legge, invece, Trump ha avuto una
conversazione telefonica con il re saudita, Salman Ben Abdel Aziz, circa
gli obiettivi del bando e quelli dell’amministrazione americana nella
regione. Il tycoon ha confermato il pieno sostegno ai suoi principali alleati nell’area mediorientale: Israele ed Arabia Saudita. Secondo il quotidiano indipendente arabo Ray Al Youm,
infatti, Ryad ha ricevuto messaggi rassicuranti “per la mancata
applicazione della legge Jasta e per la ripresa di rapporti amichevoli”
dopo un periodo di relative tensioni con l’amministrazione Obama. Alleanza rinsaldata dal “Muslim Ban” che va direttamente a colpire il principale nemico di Riyadh: l’Iran.
A sostegno di un rinnovato rapporto di reciproca alleanza, il
segretario per la Sicurezza nazionale, John Kelly, in merito
all’esclusione della monarchia saudita dal bando, ha affermato che “la
principale motivazione è che il paese saudita ha una buona intelligence e
buone forze dell’ordine che collaborano con Washington”.
In attesa di una decisione definitiva della Corte d’Appello Federale
circa la legittimità del bando, considerato da 18 Stati americani
“discriminatorio verso i musulmani”, la norma ad oggi prevede la
momentanea sospensione per l’ingresso di immigrati provenienti da Iran, Iraq, Yemen, Siria, Libia, Sudan e Somalia.
Sempre secondo Kelly, infine, “gli Stati Uniti non stanno considerando
l’ipotesi di allungare la lista dei paesi interessati dal bando
sull’immigrazione”.
“Con questo bando Trump pensa di poter eliminare tutte le minacce per gli Usa” – afferma sul Guardian
Aryeh Neier, fondatore dell’Ong Human Rights Watch – In questo modo,
invece, aumenterà i rischi per milioni di americani che viaggiano,
lavorano e vivono fuori dai confini del paese, senza risolvere niente”.
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