di Chiara Cruciati
Dopo il ritorno della
città di Aleppo nelle mani del governo di Damasco, a metà dicembre, e la
firma della tregua alla fine dell’anno, gli occhi di tutti si erano
spostati su due città chiave del nuovo conflitto a bassa intensità:
Idlib, roccaforte dell’ex al-Nusra; e Al-Bab, comunità della provincia
di Aleppo a 30 km dal confine con la Turchia.
Previsioni rispettare: Al-Bab è da settimane il nuovo terreno
di scontro dei due fronti, il pro e l’anti-Assad, seppure con una
violenza inferiore. Ma non con minore intensità né con inferiore
potenzialità distruttiva. Ieri la contraddizione bellica e
politica che circonda la comunità occupata dallo Stato Islamico si è
palesata: un raid russo ha ucciso tre soldati turchi e ne ha feriti
undici.
Poco prima la Turchia, che sul terreno è appoggiata dall’Esercito
Libero Siriano, di cui è sponsor da tempo e con il quale ha occupato
Jarabulus e lanciato l’operazione “Scudo dell’Eufrate” ad agosto, aveva
annunciato l’ingresso ad Al-Bab dalla zona ovest. Nelle settimane
precedenti era stato l’esercito governativo ad avanzare da sud,
portandosi in breve tempo a pochissima distanza dalla città.
Lo scontro tra Damasco e opposizioni si è fatto realtà
concreta, un’eventualità capace di far saltare la tregua del 27 dicembre
e l’attuale – fragile – processo di pace in corso. A fine mese è prevista a Ginevra una nuova conferenza, dopo quella di Astana mediata e organizzata da Russia, Iran e Turchia.
Dopo il bombardamento Mosca si è immediatamente scusata e ha espresso
le proprie condoglianze ad Ankara, definendo il raid un incidente. Impossibile
dire se sia effettivamente trattato di un incidente oppure sia stata
un’operazione voluta. Il precedente a cui viene da pensare è quello del
settembre 2016, quando l’aviazione statunitense – con Casa Bianca e
Cremlino che avevano appena siglato la tregua – bombardò Deir Ezzor,
enclave islamista, uccidendo però decine di soldati siriani. Un raid che fece saltare il cessate il fuoco e visto da più parti come un atto calcolato.
Il bombardamento russo di ieri ha un potenziale simile, seppur meno
distruttivo: Ankara e Mosca hanno già stabilito di coordinare meglio le
operazioni anti-Isis in Siria creando un apposito centro di comando. Ma
l’impressione è che, con forze governative e milizie di opposizione
ormai a tre km di distanza, i russi vogliano dare coordinate precise
dell’intervento.
Al-Bab contraddice le parole della diplomazia: sul campo, entrambi
ufficialmente in chiave anti-Isis, ci sono il fronte pro-Assad (con il
sostegno aereo russo) e quello anti-Assad (rappresentato sia
dall’Esercito Libero che insiste per far cadere il presidente che dalla
Turchia). Se Ankara a parole ha accettato la permanenza
temporanea di Assad nella fase di transizione politica, decretando così
la propria sconfitta nella guerra siriana, ora punta senza farne troppo
mistero alla creazione di una zona cuscinetto lungo il confine.
A questo serve Scudo dell’Eufrate: ad impedire alla kurda Rojava di
unificare i cantoni di Afrin, Jazira e Kobane, ma anche a dare vita ad
un’enclave sunnita su cui esercitare diretta influenza.
Uno spezzettamento del paese che Damasco non intende avallare. Lo
scontro ad Al-Bab, prima o poi, esploderà sotto forma di confronto
militare o di ritirata di una delle due parti. Fonti interne siriane
parlano di un accordo mediato dalla Russia ad Astanza proprio
su Al-Bab per evitare che i due fronti si trovino faccia a faccia,
rischiando di far collassare i piani diplomatici di Mosca: ad entrare in
città una volta liberata dall’Isis sarà il governo. Non è dato sapere
quale sia l’opinione in merito dell’Els. Non resta che aspettare.
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