Le vicende economiche italiane e degli altri stati europei sarebbero state sempre più caratterizzate, infatti, dal prevalere di impostazioni “rigoriste” e dall’attacco al Welfare imposti dalle classi dominanti.
Su tutta l’Europa soffiò impetuoso e devastante il vento del cosiddetto neoliberismo che sconvolse gli equilibri e gli assetti dei “favolosi trenta anni” (1945-1975) determinando il cambiamento delle condizioni distributive, pesanti difficoltà dei processi di accumulazione, massicci fenomeni di esclusione sociale, crescenti povertà, precarizzazione del lavoro ed aumento della disoccupazione
In piena sintonia con quanto accadeva in altre parti del continente, il capitalismo italiano (che, dal termine degli anni Sessanta e per la prima metà dei Settanta, aveva in qualche modo subito l’iniziativa della classe operaia e del movimento sindacale) mirava ad ottenere mutamenti strutturali profondi. Tra i principali obiettivi della borghesia capitalistica del nostro Paese vi fu lo smantellamento di tutto l’impianto di politica economica che aveva segnato – pur tra forti limiti ed evidenti contraddizioni – il primo trentennio del dopoguerra, e che aveva consentito, tra l’altro, l’allagamento della base dell’apparato produttivo in settori fondamentali dello sviluppo quali, ad esempio, la siderurgia e l’industria petrolifera e favorito la crescita dell’occupazione sia al Nord, sia nel Mezzogiorno.
La presenza dell’iniziativa pubblica in economia, che già era stata oggetto di severe critiche negli anni Ottanta, subì, all’inizio del decennio successivo, un poderoso attacco (fortemente sostenuto dai grandi organi di informazione controllati dai maggiori gruppi imprenditoriali privati) teso a cancellare la funzione interventista sino ad allora svolta dallo Stato sia nell’industria, sia nel terziario.
In Italia, le tendenze all’integrazione capitalistica europea, nel volgere di pochi anni, finirono con l’imporre, quindi, un diverso ruolo dello Stato nell’economia con il passaggio dall’intervento diretto alla regolamentazione dei mercati, fenomeno che andava di pari passo con i processi di privatizzazione delle banche e delle imprese pubbliche. Per quanto concerne il mondo del credito, passaggi fondamentali di tale politica furono la legge Amato – Carli del ’90 ed il successivo testo unico del’93 in materia di rapporto tra banca ed imprese, testo che sancì il definitivo accantonamento dei principi ispiratori della legge bancaria del ’36 (sopravvissuta per diversi decenni alla caduta del fascismo) e il ritorno, in forme nuove, della banca universale.
E’ in questa temperie che inizia a prender concretezza il disegno delle classi dirigenti italiane di pervenire in qualche modo alla riscrittura della Costituzione del ’48, considerata sempre più come un ostacolo alla nuova costituzione materiale del Paese.
Esprimeva bene questo punto di vista Guido Carli, ex Governatore della Banca d’Italia, poi presidente della Confindustria, ed infine Ministro del Tesoro nel VI e VII governo Andreotti, quando nella sua ricostruzione di cinquant’anni di vita italiana (l’autobiografia pubblicata dalla Laterza qualche anno dopo la scomparsa del “grand commis”) scriveva:
"La Costituzione è il punto di intersezione fra la concezione cattolica e la concezione marxista tra società ed economie, tra società e Stato. Le accomuna il disconoscimento del mercato in quanto istituzione capace di orientare l’attività produttiva verso il conseguimento degli interessi generali e la individuazione nello Stato dello strumento più idoneo per orientare la produzione all’interesse generale".In tale contesto, caratterizzato, sul versante politico ed istituzionale, dal ridimensionamento della forza della Democrazia cristiana (precipitata nelle elezioni del ’92 al di sotto del 30 % dei consensi validamente espressi), dalle difficoltà dei partiti laici, dal mancato decollo del Psi, dalla crisi del Partito Comunista sfociata nella scellerata svolta della Bolognina e nella nascita di un nuovo soggetto politico (il Pds) in discontinuità con la tradizione del comunismo italiano, nonché dall’impetuoso apparire della Lega Nord, fortemente radicata nelle regioni settentrionali del Paese, si affermarono movimenti, correnti di opinione, indirizzi programmatici decisamente ostili all’intervento straordinario nel Mezzogiorno. Sul banco degli imputati furono trascinate le politiche meridionaliste accusate indiscriminatamente di essere enorme fonte di sprechi, di ruberie di ogni genere, di corruzione, di parassitismo, di connivenza e di complicità nei confronti delle mafie, di forme di clientelismo dalle quali traevano vantaggio prevalentemente i gruppi dirigenti democristiani e socialisti.
Nel biennio ‘92-‘94 (durante il quale vi furono due elezioni politiche, l’avvicendarsi di tre governi, l’esplosione di Tangentopoli, la liquidazione per via giudiziaria dei gruppi dirigenti nazionali e locali di tutte le forze di centro sinistra che avevano lungamente governato il Paese) prese avvio il processo di realizzazione dei progetti “riformisti” da tempo covati dalle classi dirigenti capitalistiche italiane.
Il nucleo centrale di tale offensiva aveva come capisaldi il definitivo superamento dell’economia mista, l’affermazione apodittica della centralità del mercato nell’allocazione delle risorse, la costruzione di un diverso sistema politico, non più fondato sulla funzione unificante svolta dai partiti di massa (peraltro già entrati in una crisi profonda negli anni Ottanta) e sulla legge elettorale proporzionale, abrogata con un referendum celebrato nella primavera del ’93. Tutto ciò, nei programmi a medio e lungo termine della borghesia italiana, avrebbe dovuto cambiare il volto del Paese, far voltare pagina rispetto alla storia degli anni Sessanta e Settanta, favorire una nuova architettura istituzionale molto più funzionale alle esigenze del capitalismo.
Nel ’94, con la vittoria della coalizione di centro destra guidata da Silvio Berlusconi (vittoria indubbiamente favorita dal nuovo meccanismo elettorale maggioritario) si consolidò il peso politico della Lega Nord, e ciò determinò una nuova gerarchia di priorità nell’agenda politica del Paese: assunse ancor più centralità la questione nordista, come risposta alla protesta dei ceti produttivi settentrionali che reclamavano una distribuzione delle risorse che privilegiasse il Nord, mentre l’antica, e mai realmente risolta, questione meridionale scomparve dai programmi governativi e destò un interesse sempre più debole nelle forze di opposizione.
Del resto l’intervento nel Mezzogiorno era stato assoggettato, già negli anni Ottanta, ad una nuova disciplina organica (legge 64 del 1° marzo 1986) che aveva introdotto nella legislazione importanti modifiche: alla vecchia Cassa era subentrata l’Agenzia per lo sviluppo del Mezzogiorno, avente il compito, molto più limitato, di provvedere al finanziamento dei progetti presentati dalle regioni ed altri enti, ed approvati nel piano annuale.
La nuova normativa (chiaramente ispirata ad una filosofia radicalmente diversa rispetto a quella che, all’epoca dei governi centristi di De Gasperi, aveva dato vita alla politica meridionalista dell’Italia repubblicana) costituiva, come ha sostenuto la studiosa Claudia Trezzani, un segnale di transizione verso la vera e propria cessazione dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno.
Comunque, nel ‘92-’93 fu posta dal governo Amato la parola fine all’intervento straordinario con l’adozione di più atti normativi che soppressero l’Agenzia per il Mezzogiorno, nominarono un commissario liquidatore, individuarono le amministrazioni ordinarie dello Stato alle quali trasferire le funzioni di sostegno allo sviluppo delle aree depresse. La decisione dell’esecutivo guidato dal professore socialista avvenne in tempi molto rapidi e fu dettata dall’intento di evitare che il referendum popolare abrogativo della legislazione sull’intervento straordinario (promosso da un fronte trasversale composto dal Comitato Segni, dal Comitato presieduto dal giurista Massimo Severo Giannini e dal Partito radicale) fosse celebrato il 18 aprile del ’93.
Il timore era che, in una fase molto delicata e complessa della vita del Paese, la celebrazione di quella consultazione referendaria avrebbe acceso un dibattito dai toni esasperati e spaccato in maniera dirompente l’Italia.
Con la cessazione dell’intervento straordinario, il divario tra il Mezzogiorno e il Centro-Nord assunse nuovamente un andamento crescente. Tra le conseguenze maggiormente devastanti vi furono la caduta degli investimenti in opere pubbliche e negli impianti industriali, l’aumento della disoccupazione, un allarmante rallentamento dello sviluppo. Inoltre, le grandi trasformazioni intervenute nel sistema creditizio ebbero anch’esse un grave impatto su tutta l’economia meridionale. Come è noto, infatti, il sistema del credito ha storicamente svolto in Italia un ruolo molto importante nei processi di sviluppo locale, soprattutto in relazione alla specificità del tessuto produttivo, formato da piccole e medie imprese con scarse possibilità di accesso ai mercati finanziari per il reperimento di risorse. La frettolosa abrogazione dell’intervento straordinario, congiuntamente alle politiche restrittive e rigoriste adottate per uniformarsi ai dettami di Maastricht, condussero ad una crescita esponenziale delle sofferenze bancarie, che assunse aspetti imponenti e massicci. Il completo arresto delle attività in favore del Mezzogiorno, ha sostenuto il professor Giuseppe Ammassari sul il Sole 24 Ore del 13 settembre 2016 mise in crisi, infatti, "circa 18.500 aziende, privandole dei contributi previsti per legge: anticipo del 50% del contributo in conto capitale, erogazione delle successive quote in conformità agli stati di avanzamento ed erogazione del contributo in c/interessi sui mutui accordati dal sistema bancario".
Ma quale fu in questo drammatico scenario il ruolo svolto dal principale istituto di credito del Mezzogiorno, il Banco di Napoli, una delle più importanti banche italiane (la settima), presente in quasi tutto il territorio nazionale, particolarmente nelle regioni meridionali, con una vasta rete di sportelli e con una rete di filiali anche all’estero (810 sportelli e 13 controllate che operavano in tutto il mondo)? Sempre il professor Ammassari (che è stato Direttore generale della produzione industriale al Ministero dell’industria, del commercio e dell’artigianato dal 1988 al 1996, nonché membro dei consigli di amministrazione di svariati grandi gruppi imprenditoriali pubblici), nel citato articolo apparso sul quotidiano della Confindustria, ha scritto che il Banco di Napoli aveva consentito la prosecuzione delle azioni ed iniziative avviate dalle aziende in attesa che il Parlamento decidesse sulla materia. La crisi dell’istituto di credito – che pure pagava i salati costi di una gestione non trasparente e clientelare – fu, quindi, in gran parte, anche determinata dal mancato rientro dei prefinanziamenti accordati. In conseguenza della situazione di difficoltà in cui era precipitato il Banco di Napoli, gli organi di vigilanza della Banca d’Italia, nel febbraio 1995, disposero accertamenti ispettivi per verificare il reale stato dei conti dell’istituto di via Toledo.
Gli ispettori inviati da Via Nazionale rilevarono la presenza di un’anomala ed imponente quantità di crediti in sofferenza ed incagliati, tale da poter configurare un crac finanziario di spaventose proporzioni.
Mariarosaria Marchesano, giornalista economica che alla vicenda Banco di Napoli ha dedicato articoli e, recentemente, un instant book molto utile per la comprensione di quel che è accaduto, ha definito la grave situazione dell’istituto di credito emersa a metà degli anni Novanta il più imponente crac della storia repubblicana, paragonabile a quello registrato dal francese Crédit Lyonnais. Drammatiche crisi bancarie si erano registrate anche tra la metà degli anni Settanta e i primi anni Ottanta, ma, a tal proposito, va precisato che i precedenti dissesti, di dimensioni notevoli, della Banca Privata Italiana di Michele Sindona e del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi (che pure ebbero conseguenze non trascurabili sul sistema creditizio) furono prevalentemente originati da una inquietante commistione di interessi e di complicità tra ceto politico governativo, poteri occulti (P2), mafia, finanze vaticane.
Il buco del Banco di Napoli, sicuramente ammontante a cifre enormi, fu di altra natura ed ebbe concause diverse, riconducibili, come si è detto in precedenza, in larga misura, sia alle difficoltà provocate dalla cessazione dell’intervento straordinario, sia alla cattiva gestione manageriale.
In ogni caso, le tristi vicende dell’Istituto di via Toledo portarono, nel giro di pochi anni e attraverso una serie di passaggi intermedi, alla sua vendita ed al suo ingresso nell’orbita della galassia creditizia settentrionale. Nel ’97 si procedette alla cessione, alla Bnl ed alla Ina, di una prima tranche, pari al 60% del capitale ordinario, per un corrispettivo di 62 miliardi di lire (equivalenti a 32,02 milioni di euro). L’operazione di acquisizione andava ad inserirsi nel progetto di creazione di un grande polo bancario-assicurativo ed inoltre, aspetto niente affatto trascurabile, consentiva alla banca romana di superare le non poche negative ripercussioni che le erano derivate dallo scandalo di Atlanta.
L’amministratore delegato della Bnl, Davide Croff, in una dichiarazione alla stampa, magnificò le sorti progressive del matrimonio con Ina e della acquisizione del Banco di Napoli: "Quando ci sarà la fusione, speriamo in tempi brevi, l’Ina diventerà il primo azionista privato che entra nella Bnl con una posizione forte e con l’obiettivo della privatizzazione". Poi aggiunse che fin da subito sarebbero state possibili sinergie in considerazione della "complementarietà fra le due banche; in ogni caso, l’intera operazione va vista nella sua complessità: non è una semplice acquisizione".
Quel matrimonio, nonostante i toni trionfalistici usati da Croff, ebbe vita molto breve, anche se la Bnl trasse notevoli margini di utile dall’operazione, rivendendo il Banco di Napoli al San Paolo Imi. Nel luglio 2000, infatti, avvenne l’acquisizione da parte dell’istituto torinese, che aveva lanciato un’Opa sulla parte di capitale della banca di via Toledo messa all’asta.
Anche quest’ultima operazione si rivelò ad esclusivo vantaggio della banca acquirente. Con l’acquisto del Banco di Napoli il gruppo San Paolo-Imi, scalò, infatti, le vette del sistema creditizio italiano collocandosi in una posizione di preminenza su altri istituti bancari.
Indubbiamente il complesso intrico di vicende relative alla vendita del Banco di Napoli pone legittimi interrogativi ed induce a serie riflessioni sulle modalità attraverso le quali avvenne il salvataggio dell’istituto di Via Toledo, sulla successiva acquisizione da parte della Bnl e dell’Ina (per una cifra da alcuni osservatori ritenuta molto modesta) e sulla rivendita, a distanza di pochi anni, al San Paolo Imi, ma anche sui criteri adottati nella valutazione compiuta dei crediti ritenuti di difficile se non impossibile recupero. A ciò va aggiunto che a pagare le conseguenze del crac furono gli azionisti del Banco di Napoli (soprattutto la Fondazione che ne era il principale) che, per effetto dei provvedimenti assunti dal governo dell’epoca, si ritrovarono nel proprio dossier titoli azioni ormai prive di valore. Nell’ambito degli interventi predisposti per il risanamento, fu ceduto alla società Sga (acronimo della Società ma per la Gestione delle Attività) un complesso di attività a rischio, al valore risultante dalla contabilità del «Banco» al 30 giugno 1996.
Tale cessione riguardò crediti anomali, titoli soggetti al cosiddetto «rischio paese», partecipazioni rivenienti da ristrutturazioni di crediti, nonché l’interessenza nel Banco di Napoli International, ammontanti complessivamente a circa 6,4 miliardi di euro (ai quali si aggiunsero più tardi i crediti vantati dall’Isveimer). Le posizioni acquisite (tra le quali figuravano anche quelle relative a gruppi imprenditoriali nazionali, tra i quali anche il milanese Ligresti) erano circa 36.000. Il finanziamento della Sga per l’acquisto dei crediti avvenne ad opera dello stesso Banco di Napoli al tasso del 9,4%, con garanzia della Banca d’Italia che si assumeva il rischio del mancato rimborso del prestito. La scelta di costituire la Sga fu dettata dalla volontà di evitare la liquidazione coatta amministrativa del Banco di Napoli, com’era avvenuto per altri casi come Sicilcassa e Banca Fabbrocini, ed avviare il risanamento dell’istituto. Nel 2002 l’intero importo del prestito veniva restituito dalla Sga. Nel tempo, poi, la Società, che ha recuperato oltre il 90% dei crediti che furono ritenuti inesigibili, ha accumulato riserve di utili per alcune centinaia di milioni di euro, derivanti proprio dall’attività svolta. I risultati raggiunti in circa venti anni di attività hanno fatto della Sga un modello virtuoso al quale hanno guardato il Ministero dell’Economia ed il Governo. Con il decreto legge n .59 del 3 maggio 2016 all’articolo 7, infatti, è stato disposto il passaggio del pacchetto azionario della società al Mef. A fronte del trasferimento, sarà riconosciuto un corrispettivo non superiore ad euro 600.000 pari al valore nominale delle azioni trasferite.
Sul tesoretto della Sga e sulle ipotesi di utilizzo è più volte intervenuto Adriano Giannola, attualmente presidente della Svimez ed in passato presidente della Fondazione Banco di Napoli. L’economista ha sostenuto che se è vero che il Tesoro ha sostenuto oneri per il salvataggio del Banco di Napoli, è altrettanto vero che i proventi della Sga, che ha recuperato il 90 % dei crediti, oltre alle plusvalenze realizzate con la cessione del Banco di Napoli, hanno ampiamente compensato gli esborsi a suoi tempo avvenuti. Giannola ha richiamato l’articolo 3 comma 2 della legge 588/96, norma che in qualche modo tutela i vecchi azionisti, a cominciare dalla Fondazione Banco di Napoli, che allora si ritrovò con il capitale azzerato. Dunque la cessione della Sga potrebbe essere l’occasione per la Fondazione di vedersi riconosciuta una parte di quel valore.
Intorno a questa vicenda, come è stato riportato dalla stampa, dopo un inspiegabile silenzio durato alcuni mesi, vi è stata un’attenzione crescente sia tra gli addetti ai lavori (economisti, giornalisti, meridionalisti, membri del Consiglio di amministrazione della Fondazione), sia da parte del mondo politico.
Vecchi e nuovi meridionalisti sono intervenuti sostenendo le ragioni della Fondazione ed il diritto di questa a vedersi risarcita. Nonostante siano trascorsi diversi anni dalle vicende che portarono alla crisi del Banco, occorre ricostruire con precisione le varie dinamiche che condussero alla svendita del principale istituto di credito del Mezzogiorno. Ma è altrettanto necessario interrogarsi anche su altri, rilevanti aspetti che hanno caratterizzato e continuano a caratterizzare tutto il sistema creditizio meridionale ed il suo rapporto con il territorio. Non sembrano, infatti, trascurabili o di secondaria importanza alcuni processi accentuatisi negli ultimi decenni:
a) la gran parte degli sportelli operanti nel meridione risulta di proprietà di banche esterne all’area;
b) alcune aziende di credito che hanno mantenuto la sede legale al Sud sono entrate a far parte di gruppi bancari guidati da banche del Centro-Nord;
c) si è ridotto sempre più il numero di banche che hanno le proprie radici nel Mezzogiorno.
Come è stato rilevato nel rapporto Svimez 2016 sull’economia meridionale i primi cinque gruppi bancari e le grandi banche hanno ridotto, nel triennio 2013-2015, gli impieghi rispettivamente del 4,8% e del 4,7% mentre le banche piccole e minori li hanno incrementati del 1.5% e del 2,3%. Le sofferenze sono particolarmente ingenti: nel settore manifatturiero i crediti divenuti inesigibili, sempre nel triennio 2013-2015, costituiscono il 33,2 % degli affidamenti concessi alle imprese manifatturiere meridionali, mentre il dato risulta ancora più preoccupante per le imprese delle costruzioni. Emerge, quindi, un quadro nel complesso allarmante per le prospettive di sviluppo del Mezzogiorno, per il lavoro, per la stessa democrazia, minacciata al Sud non soltanto dalle mafie ma anche da fenomeni di ribellismo, di campanilismo, di meridionalismo rozzo e superficiale, puramente agitatorio, privo di respiro culturale, ben lontano dalle analisi di Gramsci e poi di Sereni sulla questione meridionale.
Certamente sul credito, vi è un forte ritardo di studi e di proposte da parte delle forze della sinistra marxista e di classe. Mancano linee interpretative dei processi avvenuti e delle trasformazioni continue delle strutture creditizie. La crisi economica ha prodotto una devastazione sociale senza precedenti, e se sono state individuate le pesanti responsabilità delle banche, è mancata un’analisi specifica con categorie marxiste sul ruolo e la funzione del credito nella società capitalistica.
Credo che la proposta del nostro Partito di rinazionalizzare le grandi banche (una volta nel controllo statale diretto o indiretto) vada nella direzione giusta, soprattutto se, in tale prospettiva, viene rilanciata l’idea di una struttura creditizia pubblica che sostenga lo sviluppo dell’industria manifatturiera del Mezzogiorno.
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