di Michele Paris
La progressiva implementazione delle decisioni sulla Siria della
nuova amministrazione Trump sembra avere impresso una svolta a un
conflitto entrato ormai nel settimo anno. Gli effetti delle iniziative
già più o meno adottate e di quelle che si prospettano nel prossimo
futuro si sono tradotti in un’impennata delle vittime civili in Medio
Oriente, proprio mentre i colloqui di pace stanno per riaprirsi quasi
senza aspettative a Ginevra e la cosiddetta coalizione anti-ISIS si è
riunita a Washington senza i rappresentanti delle forze che stanno realmente combattendo sul campo i
fondamentalisti islamici.
Il
summit nella capitale americana ha avuto un qualche rilievo soprattutto
per le dichiarazioni del segretario di Stato, Rex Tillerson. L’ex
amministratore delegato di ExxonMobil ha chiarito come gli Stati Uniti
non intendano abbandonare il proprio ruolo in Medio Oriente e, con buona
pace di coloro che si attendevano una de-escalation della guerra in
Siria dopo l’ingresso di Trump alla Casa Bianca, come siano allo studio
manovre che rischiano seriamente di aggravare il conflitto in corso.
Tillerson
è tornato a ipotizzare la creazione di “zone di sicurezza” in
territorio siriano, controllate dai militari americani o dalle milizie
armate che si battono contro il regime di Damasco, ufficialmente per
facilitare il ritorno dei rifugiati nelle loro abitazioni.
Questa
misura circola da tempo negli ambienti USA che da più di sei anni
cercano di rovesciare il governo di Assad. La fazione del governo
americano che faceva capo all’ex segretario di Stato, Hillary Clinton,
aveva promosso negli anni scorsi l’istituzione di aree off-limits alle
forze del regime o all’ISIS, così come il presidente turco Erdogan aveva
a lungo cercato di ottenere il via libera dall’amministrazione Obama
per questo stesso progetto.
Tillerson, riprendendo una promessa
che lo stesso Trump aveva fatto subito dopo il suo insediamento, è ora
tornato sull’argomento, tralasciando di far notare come una misura
simile sia del tutto illegale e rischi di innescare un confronto
militare diretto con le forze russe o di Damasco, dal momento che, come
minimo, sarebbe necessario creare e far rispettare una “no-fly zone” nei
cieli siriani.
Nel comunicato finale seguito al vertice della
coalizione anti-ISIS non è stata comunque citata la possibile creazione
di queste “zone di sicurezza”. Tuttavia, a Washington se ne continua a
discutere seriamente. In queste aree, dopo avere cancellato la presenza
dell’ISIS, le forze “ribelli” – curde o sunnite – potrebbero
riorganizzarsi grazie ai propri sponsor internazionali e lanciare una
nuova fase della guerra, diretta esclusivamente contro il regime di
Assad.
Al di là delle forme che prenderà a breve il rilancio
dell’impegno USA nel conflitto in Siria, il segretario di Stato di
Trump ha assicurato che la presenza militare americana in questo paese e
in Iraq, ma anche ovunque il “califfato” dovesse radicarsi, resterà una
realtà non solo fino alla sconfitta di quest’ultimo ma anche in seguito
per contribuire ai processi di “ricostruzione” che si renderanno
necessari.
Delle conseguenze della nuova attitudine della Casa
Bianca si è avuta un’anticipazione proprio mentre andava in scena la
riunione di Washington. La stampa americana ha raccontato di come gli
USA abbiano avviato a partire da martedì un’operazione militare che non
ha precedenti in Siria, inviando uomini dei reparti speciali a sostegno
delle Forze Democratiche della Siria, all’interno delle quali prevalgono
le milizie curde, “al di là delle linee dell’ISIS”.
L’operazione
rientra nel quadro del progettato assalto alla capitale dell’ISIS in
Siria, Raqqa, e si sta concentrando in questa fase iniziale su una diga
sul fiume Eufrate nelle mani degli uomini del “califfato”, allo scopo di
aprire una via di penetrazione da occidente verso la città. L’attacco
sembra essere condotto con un imponente dispiegamento di forze, tanto
che gli stessi vertici militari hanno faticato a ribadire la solita
versione ufficiale, cioè che i soldati americani impegnati sul campo
hanno un semplice ruolo di “consiglieri” in appoggio delle milizie curde
e sunnite.
Il New York Times
ha spiegato che la strategia USA in Siria assomiglia sempre più a
quella in Iraq, dove da mesi è in corso una durissima battaglia per la
liberazione della città di Mosul dalle forze dell’ISIS. Anche in Siria,
cioè, gli Stati Uniti stanno sempre più facendo ricorso a forze
convenzionali con incarichi di combattimento a fianco delle milizie
locali che, almeno ufficialmente, dovrebbero condurre la gran parte
delle operazioni.
Il dibattito sull’intensificazione dell’impegno
americano in Siria continua in ogni caso a evitare il punto più
importante della questione, vale a dire la totale illegalità delle
operazioni militari in corso. L’amministrazione Trump sta in sostanza
accelerando un’offensiva iniziata da Obama e che già non aveva alcuna
base legale legittima, se non quella creata appositamente dallo stesso
governo americano.
È importante inoltre sottolineare come il
rinnovato sforzo militare USA sia già drammaticamente visibile
nonostante Trump non abbia ancora formulato in modo ufficiale la nuova
politica relativa al conflitto in Siria. Gli sviluppi di questi giorni
sarebbero infatti solo la conseguenza dell’allentamento delle regole a
cui devono sottostare i militari nel condurre le operazioni sul campo.
La
Casa Bianca ha cioè cancellato le limitazioni decise da Obama e che
intendevano ridurre le vittime civili, anche se spesso in maniera del
tutto inefficace. Il Pentagono ha ora la facoltà di agire senza ricevere
l’autorizzazione dell’autorità civile e senza la necessità di
adoperarsi affinché le operazioni non si risolvano in stragi di
innocenti.
Il bilancio dei civili massacrati in Siria dalle bombe
americane nelle ultime settimane è perciò salito vertiginosamente.
L’episodio più recente è stato registrato martedì, quando i jet
americani hanno distrutto una scuola nell’area della città di Raqqa che
ospitava un centinaio di rifugiati. Le prime notizie davano più di 30
morti, ma il numero delle vittime potrebbe essere in realtà molto più
alto.
Solo qualche giorno prima, un’altra incursione nella
provincia di Idlib aveva ucciso più di 40 civili dopo che era stata
colpita una moschea. I militari americani avevano sostenuto che il
bombardamento aveva interessato un edificio vicino, dove si trovavano
miliziani qaedisti, ma le testimonianze dei residenti e delle
organizzazioni umanitarie hanno smentito questa versione, costringendo
il Pentagono ad aprire un’indagine sull’accaduto.
Oltre alle
conseguenze per la popolazione civile, il maggiore coinvolgimento
americano in Siria, destinato a crescere ulteriormente nelle prossime
settimane, rischia anche di allargare un conflitto già complicatissimo.
La nuova strategia di Trump dovrà fare i conti ad esempio con le
resistenze della Turchia ad accettare come legittime le forze curde, a
cui gli Stati Uniti sembrano essere intenzionati ad assegnare un ruolo
ancora più importante nel conflitto.
Soprattutto,
però, la maggiore presenza e intraprendenza americana in Siria minaccia
di scontrarsi con le operazioni militari della Russia in difesa del
regime di Assad. Nonostante Trump avesse prospettato una qualche
collaborazione con Mosca nella lotta all’ISIS anche in Siria, finora su
questo fronte non sembrano esserci stati particolari progressi.
Anzi,
gli sviluppi degli ultimi due mesi indicano piuttosto l’aggravamento
del rischio di un confronto militare diretto tra le due principali
potenze coinvolte in una guerra che continua a martoriare il paese
mediorientale.
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