Proseguono gli interventi sul tema dei muri. Oggi molto volentieri vi propongo questo pezzo di Paolo Rabissi della Società di Psicoanalisi Critica.
A.G.
Il muro di Berlino e il Caos
Del muro di Berlino è rimasto un pezzo lungo un chilometro e qualcosa. Costeggia lo Spree. Il territorio tra il muro e l’altra sponda del fiume era considerata zona neutra, chi cercava di attraversarla difficilmente sfuggiva alle mitragliatrici della DDR e veniva giustiziato sul posto. Dieter lo sciancato che ricordo in Inverno a Colonia era scappato per un’altra strada, nascosto dentro la fusoliera di un piccolo aereo. Rivedendo oggi il muro mi è tornato in mente, per la prima volta mi sono posto il problema se Dieter vive ancora nella Germania unificata. Oggi dovrebbe avere più o meno settant’anni come me, senza incidenti di percorso è realistico pensarlo vivo. Ma l’italiano non lo conosceva e quindi difficilmente può aver intercettato il mio blog (che altri seguono in Germania). Parlava un inglese maccheronico mentre oggi i tedeschi, quando si accorgono che sei straniero, per risponderti mettono automaticamente il disco inglese che è come una seconda lingua materna per loro che lo studiano dalle elementari, se poi vedono che non capisci allora si bloccano e chiedono aiuto increduli. Dieter non parlò mai della sua avventura, preferiva chiedermi in continuazione appena mi vedeva che cosa avrei fatto se fossi entrato in possesso di un milione di dollari!
Il muro rimasto è un’opera d’arte en plain air per via dei murales che lo ricoprono interamente. Ne esci come puoi uscire dal museo Bergruen dopo aver visto un centinaio di Picasso e altrettanti Klee. Sbalordisci e ti affatichi un po’ di più perché devi fare i conti con il cielo vastissimo e mobile di nuvole che mutano la luce e tu devi registrare lo sguardo dopo ogni click della tua macchinetta. Le due facciate del muro sono dipinte e disegnate secondo l’estro in murales brevi o lunghi. L’omogeneità delle opere è data ovviamente dal tema, interpretato in un paio di centinaia di pezzi dagli artisti di cui molti famosi, ma soprattutto dal tipo di colorazione acida delle bombolette a gas.
C’è una riflessione cui ti costringe involontariamente una bacheca posta all’inizio e alla fine del muro. Essa avverte che mentre i murales della facciata esposta a Est, il territorio riconquistato, è quello riconosciuto ufficialmente di valore, nel quale cioè si sono impegnati artisti di nome, quella esposta a Occidente con i murales di autori ignoti è ritenuta di natura ‘selvaggia’. Si tratta di un paradosso involontario. E’ come se si fossero invertite le parti. A Est, che un tempo era occupato dai barbari, l’Occidente espone la sua arte con i suoi modi coinvolgenti, le sue linee informali ma dirette a un senso, la bellezza di composizioni ammirevoli per genialità. A Ovest l’Occidente espone la serie B e C, opere dei giovanissimi, che curvano lo spray al momento giusto per disegnare un cerchio quasi perfetto ma poi la direzione deraglia da qualsiasi senso. E’ difficile cogliere in quei murales emozioni e significati. Se ci sono, sono rimasti in un cantuccio della testa dell’autore tanto che finisci col pensare che la prima è vera Arte e la seconda è solo Caos. Salvo poi non poter fare a meno di considerare che l’ordine dell’Occidente contiene una quantità considerevole di caos, quella che attualmente si manifesta nella crisi delle democrazie europee, nella crisi della globalizzazione capitalistica, nella insolvenza drammatica del pensiero unico e della sua pratica. Forse i giovani della facciata Ovest sono nel Caos ma forse stanno cercando una via d’uscita dal Caos dell’Occidente.
I benpensanti ovviamente tengono all’ordine della prima facciata. Essa contiene una sicura quantità di razionalità che garantisce, almeno a loro, la sopravvivenza. Se tutti i soggetti politici e culturali si acconciassero a razionalizzare al meglio strutture mentali e pratiche, se si adattassero con professionalità alle necessità pragmatiche del mercato tutti starebbero meglio e in ultima analisi non ci sarebbe un’Arte di serie B. Non si rendono conto, o non vogliono farlo il che è più verosimile, che esprimono in maniera plateale le conseguenze di un‘utopia. Oggi è finalmente evidente che anche l’Occidente, che sbandiera a gran voce le proprie libertà, è animato da un’utopia gigantesca: il re è nudo e tutti quelli che hanno passato gli ultimi decenni a denunciare i mali delle ideologie, che ovviamente stavano solo a sinistra, dovrebbero avere il coraggio di affermare che quello era il modo per mascherare l’utopia del pensiero unico che stava di casa da sempre di qua dal muro. Il che dimostra tra l’altro che l’umanità senza sogni e utopie non varca nemmeno le porte di case di lusso e non solo quelle delle favelas o dei centri sociali. L’utopia del liberismo e del suo attestarsi come pensiero unico è appunto quella di ritenere che, con un pizzico di razionalità in più, questo sistema può evitare il Caos al quale il grosso dell’umanità sarebbe affezionata. Un’utopia rischiosa di questi tempi. Ma tant’è, tutti i suoi sostenitori sono profondamente convinti che non si tratta di utopia ma dell’unico mondo possibile, una realtà cioè oggettiva e inconfutabile. Non sanno, non accettano, che la loro è solo un’opinione, una interpretazione soggettiva, un’ipotesi di lavoro che ha funzionato per un po’ ma che non funziona più.
Ho lasciato il muro dipinto con questo fardello. Il ponte più bello di Berlino, l’Oberbaumbrucke, ha accolto me e Adriana sotto le sue arcate in una piccola friggitoria gestita da tre giovani che friggevano patate e cotolette di maiale davanti a te. Alle pareti tanti manifesti di gruppi rock e jazz. Noi eravamo proprio gli anziani, qualcuno ci ha guardato incuriosito. Tutti giovanissimi, birretta in mano, teller di patatine fritte, tutte e tutti convinti della propria gioventù e del proprio diritto a godersela. Una pausa ristoratrice.
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