In Italia il sistema è crollato,
ma forti segnali sismici si avvertono in Inghilterra (con la Brexit e
la crisi del tradizionale bipartitismo), in Francia (con l’irruzione del
Fn sulla scena), in Spagna e Belgio (con le ripetute crisi di governo,
ripetuti scioglimenti del Parlamento ecc.), in Austria (con il successo
di Hofer, anche se non eletto). E segnali più ridotti si avvertono in
Finlandia (con i Veri Finlandesi), Olanda (con i populisti di Wilders) e
persino in Germania (dove Afd prende quota).
Tutto lascia pensare che si aprirà una stagione di forti
conflitti sociali e politici sia fra i ceti dominanti e quelli popolari,
sia all’interno delle classi dominanti per la redistribuzione delle
quote di potere.
La prima linea di frattura, in ordine di importanza,
è certamente quella fra classi dominanti e classi subalterne. Per
quanto un regime possa essere elitario, per quanto una democrazia possa
celare un contenuto oligarchico dietro una maschera, tuttavia le classi
popolari hanno pur sempre una quota di potere che le consocia e ne
giustifica il consenso. Se questo non ci fosse, il sistema crollerebbe
(che è poi quello che sta accadendo un po’ dappertutto in occidente)
perché non esiste sistema politico (fosse anche dittatoriale) che può
reggersi a lungo senza il consenso popolare.
Magari può trattarsi di un consenso meramente passivo di un popolo
che si comporta secondo le norme del sistema, influenzato da inganni
ideologico-propagandistici, ma pur sempre deve esserci una forma di
consenso, senza la quale la disapplicazione delle regole diverrebbe
automatica e con essa la fine del regime. E, da questo punto di vista,
la democrazia è più fragile degli altri sistemi, perché basata
ideologicamente sul fondamento del consenso popolare.
Costruendo lo spettro magnetico che tiene unita una compagine sociale,
occorre concedere alle classi dominate una quota di ricchezza
attraverso forme di redistribuzione di essa ed una quota di potere
attraverso i meccanismi rappresentativi. Nelle democrazie europee questo
è stato il compromesso socialdemocratico (e negli Usa il compromesso
newdealista) che ha concesso il welfarestate e la contrattazione
collettiva e una quota di potere sociale attraverso il suffragio
universale integrato da specifici strumenti di trasmissione della
domanda politica, quali i partiti di massa ed i sindacati.
Questa formula è stata distrutta dall’ondata neoliberista
che ha demolito in tutto o in parte il welfare e la contrattazione
collettiva ed ha emarginato o distrutto i partiti di massa ed i
sindacati. La nuova formula di compromesso sociale – che ha sostituito
quella del compromesso socialdemocratico – prevedeva concessioni come
l’offerta low cost di beni e servizi (basata sui bassi salari e la
precarizzazione, sia all’interno sia, molto di più, nei paesi
dove la produzione era delocalizzata), quote residue di assistenza
sociale e, soprattutto, la creazione di denaro bancario generosamente
dispensato.
Il “denaro bancario” ha creato per un certo periodo una liquidità
aggiuntiva attraverso la concessione di carte di credito (che, di fatto,
hanno procurato un mese in più di retribuzione), di più facili mutui
(negli Usa soprattutto per l’acquisto della casa, e dappertutto per
l’acquisto dell'auto). In Italia, peraltro, ha sopperito, alla falcidia dei
posti di lavoro ed al crollo dei salari, il welfare familiare basato
sulle retribuzioni dei quaranta-cinquantenni che ancora godevano dei
frutti dell’avanzata salariale degli anni settanta, sulla “pensione del
nonno” e sui risparmi consentiti dall’epoca d’oro della contrattazione
salariale.
Sul piano politico si è accentuata la nota videocratica
a tutto danno della partecipazione politica reale e si è data
l’ingannevole sensazione di un maggiore potere decisionale attraverso la
scelta dell’uomo al comando, che, in realtà blindava il ceto politico
attraverso il meccanismo del “voto utile” e mascherava la
marginalizzazione del Parlamento a vantaggio dell’esecutivo e del suo
capo. L’Italia è stata un importante laboratorio in questo senso.
Con la crisi finanziaria il meccanismo si è rotto:
il denaro bancario si è rivelato un meccanismo ingannevole, che
“mangiava” le risorse delle generazioni future. In concreto ha rimandato
il problema dei bassi redditi di una dozzina di anni, ma solo a costo
di una crisi finanziaria devastante e non ancora risolta; i margini
assicurati dai resti del welfare e della contrattazione collettiva si
vanno consumando e le nuove generazioni sono del tutto scoperte.
Di conseguenza anche la truffa della “democrazia plebiscitaria” dove
il popolo sceglie solo il semi-dittatore temporaneo, si è dissolta ed i
ceti popolari hanno rivolto la loro rabbia contro i rispettivi ceti
politici, avidi, incapaci, corrotti.
Sin qui la rivolta popolare ha avuto tre aspetti centrali:
una rivolta fiscale contro una pressione ormai poco sostenibile, che
sta condannando molti paesi ad una recessione permanente, una rivolta
contro l’Europa identificata con la cupola tecnocratico bancaria che sta
dissanguando le economie nazionali, la richiesta di nuove forme di
democrazia (come dappertutto accade con la richiesta di referendum).
Su tutto questo si è sovrapposta la reazione anti immigrazione,
determinata da un insieme di cause: la sensazione che questa gente
sottragga risorse ed occasioni di lavoro ai nativi, il timore per la
sicurezza che indica negli immigrati una massa di criminali, ma
soprattutto una reazione identitaria che teme di vedere sopraffatta la
propria cultura, una reazione perfettamente simmetrica a quella dei
popoli “altri” (mediorientali, indiani, russi, africani ecc.) che vedono
– magari con maggiore fondamento – nell’Occidente il sopraffattore.
La globalizzazione, al contrario delle aspettative
che immaginavano una crescente convergenza delle diverse identità
culturali verso un modello unico ha avuto, per ora, l’effetto opposto di
una generale rivolta identitaria di ciascuno dei soggetti coinvolti. Il
fatto che gran parte dei motivi di questa reazione, soprattutto in
Occidente, siano infondati non toglie che essa sia reale e, di fatto
agisca come diversivo rispetto ad una rivolta sociale contro il l’iper
capitalismo finanziario che è alla base dell’attuale disastro sociale e
contribuisce ad orientare a destra la rivolta in atto.
E’ difficile dire che evoluzioni avrà il fenomeno,
ma è evidente che è uno dei principali terreni di scontro nel prossimo
futuro. La proposta dei poteri finanziari per spegnere la protesta è
quella del “reddito di cittadinanza” o, se si preferisce “di
sussistenza”, in cambio dell’accettazione dell’attuale ordinamento da
parte delle classi subalterne. Si concede qualche briciola dei profitti
della delocalizzazione, della speculazione finanziaria, del sotto
salario generalizzato in cambio della rinuncia a mettere in discussione
gli aspetti di potere esistenti, ma si sbaglia chi pensa che si tratti
del classico “piatto di lenticchie”, questo è meno di un piatto di
lenticchie.
E’ interessante notare come questa proposta sia tanto popolare anche a
sinistra (e parlo della sinistra radicale): trenta anni di
diseducazione politica e di svalutazione culturale del lavoro hanno
generosamente posto le premesse di questo naufragio politico ed ideale
della sinistra.
Realisticamente, il cuore dello scontro sarà un altro e riguarderà la qualità del sistema democratico.
Sbaglia chi pensa che gli equilibri istituzionali attuali di democrazia
più o meno basata sullo Stato di diritto, sulla rappresentanza e sulle
libertà di espressione, sciopero ecc. possa restare come è. Dopo i
brividi procurati dalla Brexit, dall’elezione di Trump, eccetera non è
realistico pensare che le classi dominanti accettino di mantenere questi
margini di partecipazione popolare: la prima misura da mettere in conto
è la limitazione crescente dell’istituto referendario. Dopo verranno,
in un modo o nell’altro, misure di ridimensionamento del suffragio
universale: c’è chi propone una ulteriore riduzione di potere dei
parlamenti a tutto vantaggio delle élite tecnocratiche (la “democrazia a
trazione elitaria” cara a Mario Monti e fatta proprio dal “Foglio”,
tanto per dirne una), chi vorrebbe una seconda camera tutta di nomina
dall’alto, chi progetta riforme del sistema elettorale pensate per
blindare il blocco tecnocratico di centro, per certi versi il “pacchetto
Renzi” anticipava alcune di queste tendenze.
Ma c’è anche chi pensa di agire non attraverso i meccanismi
istituzionali, quanto attraverso la repressione selettiva e la
limitazione del diritto di espressione (la polemica sulle fake news e la
“post verità” serve solo ad aprire la strada in questo senso). Ma
verranno anche altre misure tese a garantire le élite politiche dal
rischio di inopportune inchieste sulla corruzione o sui rapporti con la
borghesia mafiosa.
Dall’altro lato, la protesta popolare ormai chiede maggiore potere
decisionale e, soprattutto, di controllo. Non si tratta solo della
rabbia contro la cupola tecno-finanziaria della Ue, ma dell’esigenza di
garantire la domanda politica dei ceti subalterni attraverso meccanismi
che vadano oltre la democrazia rappresentativa. Si tratta di innestare
sul tronco delle nostre democrazie forti elementi di democrazia diretta
che lo rivitalizzino, si tratta di estendere la democrazia oltre la
sfera politica, facendola penetrare anche nella produzione, nella
cultura, nella ricerca, nell’informazione. E si tratta anche di “mettere
al guinzaglio” i poteri extrapolitici, a cominciare dai poteri
finanziari che godono oggi di una libertà inconciliabile con il bene
comune, di una impunità penale e di una franchigia fiscale ormai
intollerabili. Ed insieme ai poteri finanziari occorre mettere “sotto
controllo” anche la classe politica troppo spesso incline ad entrare in
rotta di collusione con i poteri finanziari e con la borghesia mafiosa, e
troppo facile a corrompersi.
Dunque, delle due l’una: o i nostri regimi prenderanno la
strada di una trasformazione in senso partecipativo e democratico,
oppure l’involuzione elitaria, finanziaria e para criminale del sistema
finirà per compiersi.
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