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28/03/2017

Quel 25 marzo cileno

“Il potere ha molti vantaggi e, tra questi, quello di fare e parlare a proprio piacimento” (Sofocle, Antigone).

Quanto accaduto il 25 marzo, con l’ammassamento coatto di circa centoventi manifestanti cui è stato sottratto in modo illegittimo il diritto democratico, costituzionalmente garantito, a manifestare le proprie idee, non rappresenta certo una situazione di eccezione o lo smarrimento temporaneo delle procedure democratiche del Minniti di turno, ma lo stato di salute effettivo delle democrazie attuali, nelle quali l’applicazione del modello securitario ha determinato un vuoto di diritto e la sottrazione di trasparenza delle procedure.

Le scene dei tanti pullman fermati all’ingresso di Roma, delle volanti della polizia messe di traverso sull’asfalto, della tattica adottata dalla celere durante il corteo festoso e pacifico per farlo precipitare nella consueta orgia di manganellate, non costituiscono l’eccezione ma la norma, non il dispositivo momentaneo né la parentesi in una condizione normale di democrazia, ma un paradigma ormai consolidato e fondato su istanze repressive.

L’internamento, sia pure temporaneo, dei manifestanti rei di avere una “diversa ideologia”, d’impulso ha fatto riaffiorare alla memoria i tristi giorni cileni del ’73.

L’immagine dei manifestanti dietro le sbarre, ammassati e privi di garanzie giuridiche, l’identificazione coatta, la mortificazione della personalità politica e civile, sono sintomi evidenti di una democrazia deviata in cui la sospensione del diritto viene burocratizzata e diventa ordinarietà.

D’altronde il nostro paese, a partire dal secondo dopoguerra, ha sempre mantenuto la natura del Giano bifronte, normativa da un lato e discrezionale dall’altro. Quel “doppiostatismo”(Fraenkel) che ha ostacolato la piena affermazione della democrazia e ne ha minacciato pesantemente i fondamenti con la stagione delle stragi, oggi le permette, a tutti gli effetti, di comportarsi, attraverso la normalizzazione della “sospensione del diritto” (Agamben), come una dittatura.

E così, se il 4 dicembre, con la vittoria del NO siamo riusciti a salvare il nostro paese dal rischio di scardinamento per via istituzionale della Costituzione, le élite dominanti, quelle che a Roma il 25 marzo hanno ipocritamente celebrato i valori dell’uguaglianza e della solidarietà, trovano, con inaudito camaleontismo, altre mille strade per blindare violentemente, de facto, la democrazia.

Una cosa è certa, siamo ora chiamati, dopo la vittoria referendaria, a riprenderci la nostra legittima sovranità contro le oligarchie UE, sostenute dalle lobby industriali e finanziarie. Da decenni le stesse conducono una lotta di classe dall’alto e pretendono oggi, a fronte di una sempre maggiore crisi di consenso, di negare anche i diritti civili e politici più elementari.

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