Duemila persone sono scese in strada ieri nel cuore di Beirut per
protestare contro il tentativo del parlamento libanese di aumentare le
tasse. “Tenete fuori le vostre mani dalle mie tasche”, “Noi non
pagheremo” si leggeva sui cartelli portati dai manifestanti mentre il
corteo gridava a più riprese la parola “rivoluzione”. In una piazza
Riyad al-Solh blindata dalla polizia, il premier Sa’ad al-Hariri
ha provato a vestire i panni del pompiere: “La strada sarà lunga – ha
detto – noi saremo dalla vostra parte per combattere la corruzione”.
Una promessa che non ha affatto convinto i contestatori: il primo
ministro, infatti, è stato fatto oggetto del lancio di alcune
bottigliette d’acqua di plastica al grido di “ladro”. Costretto a
terminare il suo improvvisato comizio, Hariri, ha poi provato a
stemperare gli animi su Twitter dove ha invitato i contestatori a
formare una commissione “che si faccia carico delle loro istanze e le
discuta positivamente”.
L’obiettivo del governo è chiaro: alzare le imposte così da
trovare le risorse necessarie per finanziare gli aumenti degli stipendi
degli impiegati pubblici. Questo provvedimento rientra in una
più ampia manovra che dovrebbe portare l’esecutivo ad approvare il primo
bilancio statale in 12 anni. Gli aumenti, che saranno approvati nelle
prossime settimane, avranno effetto solamente dopo aver ricevuto l’ok
del presidente della repubblica Aoun. Un’approvazione che appare al
momento scontata: il governo di unità di Hariri, nato ad ottobre dopo
una complessa mediazione che ha visto Aoun (alleato di Hezbollah)
diventare capo dello stato dopo anni di impasse politico, comprende
quasi tutte le principali formazioni politiche locali. A
mostrare palese contrarietà alla disposizione, infatti, sono stati solo i
falangisti cristiani, i comunisti e i socialisti di Jumblatt.
Posizione intermedia è stata assunta invece da Hezbollah che ha criticato solo
alcuni aumenti. Al momento il parlamento ha proposto di alzare l’Iva
dell’1% (su un totale dell’11%) e le tasse su tabacco, alcol importato e
sui viaggi.
A provare a tranquillizzare i cittadini libanesi ci ha pensato oggi il presidente del parlamento Nabih Berri che
ha assicurato che la scala salariale è una “giusta richiesta della
popolazione ed il governo ha la responsabilità di trovare le risorse per
finanziarla”. Tuttavia, ha poi sottolineato come gli sforzi del governo
debbano essere rivolti innanzitutto a trovare un accordo su una nuova
legge elettorale che Berri considera urgente. Il paese dei Cedri non ha
elezioni parlamentari dal 2009 ed il parlamento ha esteso due volte il
suo mandato perché i partiti non sono stati capaci di trovare una intesa
su come votare. Teoricamente le elezioni sono fissate per maggio,
tuttavia i principali esponenti politici non hanno ancora dato l’ok
definitivo.
Se il voto è ancora incerto, resta poi da capire se la rabbia di ieri
dei manifestanti è estemporanea o se, al contrario, riuscirà a dare
vita ad un forte movimento di opposizione dal basso. Secondo gli
attivisti, il governo ha sperperato i fondi pubblici attraverso
contratti con privati poco chiari e dovrebbe trovare il denaro con la
lotta alla corruzione e non tassando i cittadini. A causare il
loro malcontento non è il solo singolo provvedimento: è l’intera classe
politica ad essere denunciata perché corrotta, incapace di rispondere
alle esigenze della popolazione come le proteste del 2015 del variegato
movimento You Stink, avevano chiaramente mostrato.
Ai problemi di politica interna si aggiungono poi quelli regionali.
Intervenendo ieri ad una cerimonia in una base militare nel nord
d’Israele, il capo di stato maggiore dell’esercito israeliano,
il Generale Gadi Eisenkot, ha avvisato Beirut che nella prossima guerra
con Hezbollah lo stato libanese sarà ritenuto direttamente responsabile
delle violenze. La formazione sciita resta per Tel Aviv un
nemico temibile. Eisenkot ha infatti ripetuto ciò che diversi esperti
militari israeliani ripetono da tempo: la formazione sciita ha aumentato
le sue capacità belliche (“si sta armando e rafforzando”) e starebbe
operando a sud del fiume Litani (vicino al confine con lo stato ebraico)
violando così il cessate il fuoco del 2006 che pose fine alla guerra
tra Israele ed Hezbollah. “Continueremo ad agire in modo da contrastare i
tentativi del Partito di Dio e impediremo qualunque trasferimento di
armi avanzate [verso di loro]”.
Un ammonimento, quest’ultimo, che non è solo retorico: ieri, in un
nuovo raid di Tel Aviv sulle Alture del Golan, è stato ucciso un
combattente appartenente ad una milizia pro-Asad con legami con la
formazione sciita. A riportare la notizia è stata la stampa israeliana.
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