Vedere le proprie tesi confermate – in controcanto ovviamente – dal nemico, è sempre un segnale di efficacia. La prova viene dall’alto, da Peter Praet capo economista della Banca Centrale Europea intervistato oggi dal Il Sole 24 Ore in un inserto speciale dedicato al sessantesimo del Trattato di Roma e alle “buone ragioni” dell’esistenza dell’Unione Europea.
Il capo economista della Bce dedica buona parte delle sue risposte a contestare chi sostiene l’uscita dall’euro, ma apparentemente e per paradosso, ne rafforza le ragioni.
In primo luogo Praet conferma l’indissolubile legame tra euro ed Unione Europea: “L'unione monetaria è legata al progetto del mercato unico e questo a sua volta al progetto politico nato dopo la Seconda guerra mondiale con l'obiettivo di prevenire nuovi conflitti in Europa. Non si può separare l'uno dagli altri”. L’affermazione è importante per due motivi: il primo è che spazza ogni scorciatoia per chi sostiene l’uscita dall’euro (vedi la destra) ma non l’uscita dall’Unione Europea. In secondo luogo perché conferma che la rottura dell’Eurozona e della moneta unica non può che essere una opzione politica a tutto campo e non solo una escamotage economica.
Praet non si sottrae però a valutazioni politiche: “Ma quel che mi preoccupa è la narrativa populista che le cose andavano meglio prima dell'euro. E' un inganno! Siamo arrivati all'unione monetaria dopo esperienze disastrose con i cambi flessibili e alcuni tentativi senza successo di fluttuazione ordinata delle valute. Le svalutazioni, che i populisti sostengono siano un “free lunch”, un pasto gratuito, e consentano di riguadagnare competitività in modo miracoloso si sono dimostrate estremamente costose. Nel 1992, dopo una forte svalutazione della lira, il mercato unico era minacciato e sono cominciate a emergere barriere non tariffarie al commercio”. Anche questa affermazione è interessante perché rivela pienamente la falsa coscienza di chi afferma una tesi “ufficiale” sapendo che la realtà l’ha smentita sonoramente.
E’ vero che la situazione prima del 1992 non era il paese delle meraviglie, ma è indubbio che tutti gli indicatori sociali sul piano dei salari, del reddito delle famiglie, del welfare, del potere d’acquisto sono diminuiti e poi crollati proprio dal 1992 in poi, cioè dall’entrata in vigore del Trattato di Maastricht. E’ stato sicuramente così nei paesi Pigs e in Italia lo fu in modo clamoroso con l’avvio delle misure “lacrime e sangue” (governo Amato docet).
E’ importante richiamare alla memoria collettiva quel 1992 che la pubblicistica di regime liquida solo come "l’anno di Tangentopoli".
Da febbraio 1992 entrò in vigore il Trattato di Maastricht con i suoi astrusi e inflessibili parametri. La storia ha rivelato che il famoso 3% di rapporto tra deficit e Pil fu un valore definito in modo del tutto casuale. Quando prima dell’estate ci furono gli attacchi speculativi sulla lira e la sterlina, venne liquidato l’ultimo governo della Prima Repubblica – quello di Andreotti – e venne nominato il governo Amato. La prima cosa che fece quest'ultimo fu chiedere un prestito europeo per vincolare le misure “lacrime e sangue” nella Legge Finanziaria alla sua restituzione. Il ministro Andreatta (uno che nel disastro sociale ha più responsabilità di Andreotti) disse esplicitamente che per ridurre il debito pubblico occorreva ridurre il reddito delle famiglie – di ogni famiglia – di almeno tre milioni (di lire). Venne così operata la trattenuta forzosa sui conti correnti, venne introdotta l’Ici e l’Isi (imposta Straordinaria sugli Immobili, una tantum), si avviò il maggior ciclo di privatizzazioni di tutta Europa con il processo di dismissione delle Bin (banche di interesse nazionale), dell’Iri, delle aziende pubbliche in pochissimi anni.
Ma il capo economista della Bce aggiunge dell’altro: “I sondaggi, a mio parere, mostrano una disaffezione verso la situazione generale, di cui l'euro diventa un capro espiatorio. In Italia, le conseguenze di questa narrativa sono semplicemente sbagliate. L'alternativa nostalgica secondo cui tutto andrà a posto con il solo ritorno alla lira equivale a imbrogliare la gente. Il costo di un cambiamento di regime monetario sarebbe enorme e i poveri sarebbero la parte della popolazione che ne soffre di più. Guardi il recente rapporto dell'Ocse sull'Italia. Il reddito pro capite è calato del 10% dopo la crisi, allo stesso livello del 1997: dar la colpa alla valuta è il bersaglio sbagliato”.
Peter Praet forza i termini della questione giocando alla semplificazione. E’ ovvio che solo Salvini o Alemanno e i loro razzolatori possono pensare che il ritorno alla lira sia una soluzione a costo zero. O meglio, lo dicono davanti alle telecamere o magari in qualche siparietto, ma se ne guardano bene dal dargli conseguenze politiche. La destra non ha in mente una rottura della moneta unica che sia conseguentemente anticapitalista, dunque preceduta e accompagnata dalla nazionalizzazione delle banche e delle aziende strategiche, dal ripudio del debito ormai in mano a banche, assicurazioni, fondi di investimento privati italiani e stranieri, fuoriuscita del paese dalle alleanze militari aggressive contro altri popoli.
Un cambio di regime monetario è problematico sia se preso in sé, sia come atto di rottura politica. Ma non si può più accettare che il disastro provocato concretamente dalla gabbia dell’unione monetaria venga negato, evocando ossessivamente un disastro solo ipotizzabile come scenario per rendere inamovibile e quasi divino il disastro reale che abbiamo verificato materialmente dal 1992 (con il Trattato di Maastricht) e poi dal 2002 (con l’entrata in vigore dell’unione monetaria). La realtà ha ormai fatto saltare questo giochetto agli occhi della società. Tant’è che anche ambienti insospettabili (da Mediobanca all’Ofce francese) cominciano a produrre studi e rapporti che smentiscono la narrativa catastrofica sulle eventuali fuoriuscite dall’euro.
Ma il fallibilissimo ricettario di Peter Praet e della Bce, produce la consueta lista di sanguinose banalità (per la gente comune) quando insiste sui problemi e le soluzioni per la realtà italiana: “In Italia ci sono problemi reali, per esempio nel sistema dell'istruzione, nella partecipazione femminile alla forza lavoro, nella preparazione della manodopera, nella qualità della pubblica amministrazione, nella diffusione delle tecnologie. Il miglioramento in queste aree creerà ricchezza e questa ricchezza dev'essere inclusiva, per evitare un'altra fonte di populismo. È meglio guardare alla lista di riforme dell'Ocse: alcune sono state adottate e stanno producendo risultati, ma la lista delle cose da fare è ancora molto lunga”.
Anche qui i fatti smentiscono che questo ricettario abbia prodotto risultati positivi. Anzi proprio l’attuazione delle “riforme” dell’Ocse ha portato alla devastazione dell’istruzione pubblica, del lavoro e dei salari. Tant’è che il presidente dell’Ocse Gurria è tornato alla carica sul governo italiano perché preoccupato degli eventuali stop al jobs act, ai voucher e a tutta l’artiglieria pesante scaricata contro i lavoratori e i disoccupati italiani. Un bombardamento di “riforme” che ha prodotto il boom dei working poors (lavoratori poveri), una disoccupazione stellare, la ricomparsa di forme di lavoro schiavistico, aumento delle disuguaglianze sociali.
Potremmo continuare in questa sistematica decostruzione della lunga intervista del capo economista della Bce, Peter Praet ma possiamo fermarci qui. Vorremmo solo aggiungere una piccola notizia. Mentre la società vive pesantemente e comincia a comprendere la regressione sociale complessiva, i big boss delle sette principali banche italiane si sono spartiti quasi 150 milioni di euro in bonus e dividendi nel 2016.
E’ della coscienza di questa contraddizione di classe che hanno paura, sempre più paura, gli esponenti delle classi dominanti nel nostro paese e in Europa. La piattaforma e il progetto di Eurostop intendono proprio dare rappresentanza politica ai settori sociali al centro di tale contraddizione.
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