di Chiara Cruciati
La battaglia di Mosul è
feroce quanto invisibile: in assenza di documenti video e foto che hanno
accompagnato il conflitto tra governo siriano e opposizioni islamiste
ad Aleppo, la città irachena non fa inorridire. Eppure il dramma dei civili è immenso, come immenso è il coinvolgimento occidentale.
L’ultimo massacro, tra i 200 e i 300 morti in un raid aereo
statunitense, è stato il peggiore compiuto dall’aviazione Usa
dall’invasione dell’Iraq nel 2003. Tanto grave da spingere il governo
iracheno a interrompere le operazioni e andare alla ricerca di una
strategia militare meno letale.
I numeri del disastro (atteso) li ha dati ieri l’Onu: oltre
300 civili sono stati uccisi tra il 17 febbraio e il 22 marzo nella
controffensiva contro lo Stato Islamico a Mosul ovest. Numeri,
chiaramente, al ribasso se il solo raid Usa del 17 marzo ne ha uccisi altrettanti.
“Un numero indefinito di civili è stato ammazzato nei raid aerei e
molti, moltissimi corpi sono ancora sotto le macerie – racconta a Middle East Eye
un residente, Ismail Dabus – Gli aerei vedono un miliziano di Daesh su
un tetto e lanciano una bomba per ucciderlo ma, sotto nel palazzo, c’è
una famiglia e viene uccisa”.
Ieri è intervenuta anche Amnesty International che ha parlato di morti civili arbitrarie e immotivate: gli
Stati Uniti, dice l’ong, non prendono le precauzioni necessarie ad
evitare la distruzione di palazzi “con intere famiglie al suo interno”. Non si tratta, aggiunge Amnesty citando residenti e testimoni, solo dell’ultimo caso ma di un “modello” che si ripete da mesi.
Come nel raid del 13 dicembre raccontato da Hind Amir Ahmad, ragazza
di 23 anni che ha perso 11 familiari quando la casa dove vivevano è
stata centrata dalla coalizione. O quello del 6 gennaio con 16 morti nel
collasso di tre abitazioni bombardate.
“Il fatto che le autorità irachene dicano ripetutamente ai civili di
restare a casa – commenta Donatella Rovera che per Amnesty conduce le
inchieste sul campo a Mosul – indica che le forze di coalizione
dovrebbero sapere che questi raid possono portare alla morte di un
elevato numero di civili”.
Dopo la liberazione di Mosul est a fine gennaio giunta dopo tre mesi di
controffensiva partita il 17 ottobre, a metà febbraio è stata la volta
della zona ovest, la più densamente popolata. In poche settimane
le truppe governative hanno ripreso l’aeroporto e i ponti sul Tigri
portandosi a ridosso della Città Vecchia. Ma è qui che la strategia è
costretta a cambiare: fatto di vicoli stretti, palazzi arroccati e
un’altissima densità di civili, il cuore antico di Mosul ovest è una
trappola per la popolazione, stretta tra l’avanzata di Baghdad e la brutale resistenza dell’Isis, tra kamikaze, cecchini, mine disseminate tra le case.
E ora la minaccia concretissima dal cielo. Il Pentagono ha annunciato
sabato l’apertura di un’inchiesta sulla strage del quartiere di Jadida e
da lunedì sta visionando 700 video delle operazioni aeree della
coalizione. Ieri la prima ammissione del Pentagono: “Probabilmente abbiamo avuto un ruolo in quelle morti
– ha detto il generale Townsend, comandante in capo Usa in Iraq – Ora
quello che non sappiamo è se i civili erano stati portati lì dal
nemico”. O forse abitavano o si rifugiavano nelle case colpite.
La colpa – per Washington e Baghdad – è degli islamisti che
usano i civili come scudi umani. Ma, consapevole di ciò, la coalizione
deve rivedere le regole di ingaggio o Mosul diventerà un cimitero. Sono ancora 650mila le persone intrappolate nella zona ovest, 280mila quelle fuggite dall’intera città da ottobre ad oggi.
Il governo iracheno lo sa bene e sa quanto rischiosa sia l’operazione
in corso per le prospettive unitarie del paese. Per questa ragione
sabato ha annunciato lo stop all’offensiva e immaginato nuove tattiche
militari, operazioni chirurgiche e mirate. Ieri il ministro
dell’Interno, Qassim al-Araji, ha fatto un appello agli abitanti di
Mosul perché si sollevino contro l’Isis e facilitino l’ingresso dei
governativi.
Ma il rischio è enorme: i miliziani sono mescolati alla
popolazione, occupano gli stessi edifici e le stesse strade, consapevoli
che i civili sono la migliore difesa contro un governo sciita che teme
le reazioni della comunità sunnita.
Baghdad ha molto da perdere a Mosul: il paese è frammentato da 14 anni di settarismi interni, dalla corruzione dilagante e dagli abusi che ogni parte commette sull’altra. Le
morti di civili sunniti provocate da un governo sciita ampliano il gap
già esistente e distruttivo di una futura e rinnovabile unità.
Spaccature dentro le quali lo Stato Islamico sguazza, alla
ricerca di una nuova strategia a quella fallita dell’entità statuale:
con i territori occupati mangiati dalle controffensive in Siria e Iraq,
l’Isis sta optando da mesi per la tattica del terrorismo nel cuore delle
aree sciite irachene, con l’intenzione di far associare agli sciiti
l’islamismo radicale alla comunità sunnita.
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