Con le righe sfibrate e rade che seguono non intendo imbastire una disamina sulle criticità che attanagliano il mondo dell'alta formazione italiana, a dirla tutta non avrei nemmeno titolo per approcciarmi all'impresa.
Più semplicemente intendo riscontrare come all'interno dell'ambiente, anche in quei soggetti che si propongono e tentano di agire in controtendenza rispetto alle forze che determinano la realtà fattuale dell'università italiana, persista una primigenia incapacità ad esulare dagli assetti di pensiero consolidatisi a partire dalla controrivoluzione liberista dell'ultimo trentennio.
Questa banale e scontata conclusione la ricavo periodicamente dalla lettura degli interventi su ROARS, probabilmente il più acuto osservatorio di fatti, analisi e punti di vista riguardanti, appunto l'universo accademico.
Le pagine virtuali che compongono il portale sono di notevole interesse perché consentono di addentrarsi in situazioni e dibattiti che altrimenti sarebbero del tutto preclusi al pubblico, sia generalista, sia antagonista.
Da queste tuttavia, spesso si evince un canovaccio mortificante a livello sistemico.
Scarsi, infatti, sono i riferimenti che il mondo accademico fa di se stesso in rapporto al resto dell'esistente.
Quando si legge di ricerca, per esempio, si fatica a comprendere se il relatore di turno riesca a porre al centro delle proprie riflessioni l'utilità che il suo lavoro dovrebbe avere nei confronti del collettivo; si ha, insomma, l'impressione che spesso e volentieri s'adombri la stella polare per cui la ricerca dovrebbe essere finalizzata a determinare progresso tangibile per tutti, e non maggiori margini di guadagno alla multinazionale di turno che si impossesserà del nuovo brevetto del tal dipartimento, tacendo di eventuali interessi di bottega possibili in ogni ambiente – lo sanno bene i subordinati pensando alla triplice del confederalismo sindacale –.
Altrettanto mortifere sono le discussioni che ruotano intorno alla "istituzionalizzazione" della cultura e della ricerca, in particolare per quel che riguarda l'accesso ai fondi.
Per dovere di cronaca, ROARS e il mondo accademico cui da voce non hanno mai lesinato critiche aspre e ponderate alle varie riforme che hanno massacrato ogni ordine e grado dell'istruzione italiana, tuttavia ciò è sempre declinato dal versante "tecnico", quasi si avesse paura di fare (o anche solo discutere di) politica.
Mi piace pensare che si tratti di una limitazione scelta per "rigore analitico", e non per filtro ideologico che impedisce di concepire la politica oltre la buona gestione dell'esistente, evitando (o negando?) qualsiasi speculazione sui rapporti di forza materiali interni alla società che determinano le conseguenti scelte politiche che quell'esistente che si vorrebbe ben amministrare, lo inverano in ogni dettaglio.
Il ritorno alla ricerca accademica dunque va benissimo, tuttavia dovrebbe essere altrettanto auspicabile un ritorno all'analisi e al discorso politico, ormai smarriti da troppo tempo, se non altro per evitare maldestre cadute di stile citando superficialmente "assurde programmazioni di stampo sovietico", che fanno il paio con giornalisti (o sedicenti tali) che chiamano in causa presunti padroni delle ferriere sovietiche...
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