i Chiara Cruciati – Il Manifesto
Da oggi il co-leader dell’Hdp
Demirtas e il deputato Zeydan rifiuteranno il cibo: stomaci vuoti per
protestare contro «il trattamento disumano» riservato ai parlamentari
del partito di sinistra pro kurdo dalle autorità carcerarie turche.
Demirtas e Zeydan sono entrambi prigionieri a Edirne, carcere di massima
sicurezza, dal 4 novembre.
Mentre la leadership Hdp annunciava il lancio dello sciopero
della fame, nei palazzi di Ankara il segretario di Stato Usa Tillerson
(affatto scosso dall’incarcerazione di 150 giornalisti e 10
parlamentari) incontrava il presidente Erdogan.
Sul tavolo l’alleanza strategica tra Turchia e Stati Uniti,
parzialmente minacciata dall’ingresso della Russia nel campo da gioco e
dalla controffensiva su Raqqa, a cui 500 marines partecipano al fianco
delle Forze Democratiche Siriane (Sdf) guidate dai combattenti kurdi di
Rojava.
Una politica apparentemente schizofrenica, ma lucidissima: gli Usa non intendono affrancarsi da un alleato di ferro come quello turco. Quella con i kurdi è un’amicizia di convenienza che avrà come sola vittima le aspirazioni democratiche di Rojava.
Così va letto l’annuncio fatto da Ankara poche ore prima
dell’incontro Tillerson-Erdogan: l’operazione Scudo dell’Eufrate, nel
nord della Siria, lanciata lo scorso agosto e palesemente diretta non a
far indietreggiare l’Isis ma a contrastare le mire unitarie kurde, è
finita. O quasi.
«D’ora in poi, se compiremo azioni nel caso la nostra sicurezza sia
minacciata o contro l’Isis – ha detto mercoledì sera il premier Yildirim
– saranno parte di una nuova operazione con un nome diverso. Ciò
significa che Scudo dell’Eufrate è finita».
Finita perché, aggiunge, gli obiettivi sono stati raggiunti. In effetti quelli ufficiosi
(impedire l’unione dei cantoni kurdi di Afrin, Kobane e Jazira
attraverso la presa di Jarabulus e al-Bab, ma non di Manbij, “ceduta”
dai kurdi al governo di Damasco per evitare che i turchi la occupassero)
sono stati realizzati: la riva ovest dell’Eufrate è sotto il
controllo dell’esercito turco e le milizie siriane a suo sostegno.
Quello ufficiale – la cacciata dell’Isis – no, visto che lo Stato
Islamico resta arroccato a Deir Ezzor e Raqqa.
Proprio Raqqa rimane la preda (non affatto occulta) sia di Ankara sia
di Washington. Yildirim non parla di ritiro delle truppe turche, che
resteranno per impedire un’avanzata kurda e tenersi pronte alla
controffensiva sulla “capitale” dello Stato Islamico.
Difficile non vedere nell’annuncio del premier uno strumento
di compattamento del fronte del sì al referendum costituzionale del 16
aprile: con l’unica reale opposizione parlamentare dietro le
sbarre, migliaia di sostenitori di Hdp e Dbp in carcere, la fine
dell’operazione è presentata agli elettori come il mezzo per rispedire
nella famigerata “zona cuscinetto” (anelata da anni dalla Turchia e ora
forzatamente realizzata) buona parte dei tre milioni di profughi siriani
registrati in territorio turco.
Ma di andarsene dalla Siria non se ne parla. Ed
infatti con Tillerson Erdogan ha insistito sulla necessità di lavorare
«con attori legittimi» in Siria e non con Ypg e Ypj kurde, considerate
organizzazioni terroristiche. Dimenticando di citare l’aperto sostegno
garantito per anni agli islamisti radicali e la sponsorship di gruppi
salafiti dall’ideologia vicina a quella qaedista che oggi sono leader
della delegazione delle opposizioni al tavolo di Ginevra.
Tillerson ha fatto la sua parte: dopo l’incontro con il ministro
degli Esteri Cavusoglu, ha detto che i due paesi stanno «esplorando una
serie di opzioni e alternative» per la liberazione di Raqqa. Nessun
accordo, per ora, ma è impossibile immaginare che la nuova Casa bianca,
lanciata nella crociata anti-Iran, rinunci ad Ankara per la causa kurda.
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