Le trasformazioni in corso in seno alla famiglia dei taliban afghani possono aiutare a comprendere le tattiche e la strategia da loro attuate nell’ultimo biennio. Un periodo in cui questi particolari signori della guerra hanno ammesso la dipartita del mitico mullah Omar, celata per due anni, si sono riuniti per eleggere un successore, si sono divisi e contrastati. Hanno trovato la quadratura del cerchio nella nomina d’un nuovo leader (Akhtar Mansour), hanno risubìto una menomazione con la sua uccisione tramite un drone, con molti sospetti su possibili fughe di notizie verso la Cia che ha commissionato quell’eliminazione. Un supporto probabilmente giunto dall’Intellegence pakistana, imbeccata dai turbanti pakistani dissidenti. Comunque il fronte talib non s’è perso d’animo. Velocemente ha nominato un nuovo capo (Haibatullah Akhundzada), proseguendo quella campagna d’attacco contro l’Afghan National Force per dimostrarne l’inconsistenza militare, smentendo coi fatti la narrazione occidentale sulla presunta normalizzazione del Paese e avanzando le proprie pretese politiche. I successivi passi di Ghani, che già dal 2015 aveva riavviato colloqui con la Shura di Quetta per una “pacificazione nazionale”, hanno cercato un’ancora nel fondamentalista Hekmatyar affinché fungesse da mediatore verso i colleghi islamisti.
Quest’ultimi, però, puntano a far pesare nell’eventuale trattativa la logica del più forte; il loro controllo del territorio è una realtà con la quale le Istituzioni che cercano il dialogo devono fare i conti. In più si nota un altro interessante fenomeno: la scomparsa dell’unicità pashtun che fra gli studenti coranici del jihad produceva un’egemonia indiscussa. In realtà per un lungo periodo quell’etnìa ha nutrito il movimento dalle roccaforti meridionali (Kandahar su tutte), ma già dalla fine dell’esperienza dell’Emirato (2001) e dall’inizio della resistenza contro l’invasione delle truppe statunitensi e della Nato la tendenza stava cambiando. Col lancio della controffensiva, sempre crescente dal 2008 e la ricostruzione delle unità combattenti da nord a sud, il fattore multietnico è diventato una condizione nuova con cui i governi fantoccio (prima Karzai, poi Ghani) devono fare i conti. Interessante è lo studio compiuto dai soliti ricercatori locali sulla situazione di alcune province del nord a fitta presenza talebana: Faryab, Sar-e Pol, Jowzjan, Balkh, Kunduz. Aree dove i governatori che dovrebbero rendere conto ai palazzi di Kabul, possono ben poco, surclassati come sono dallo spettro dei governatori fantasma, ovviamente di marca talebana.
Voce alla loro propaganda d’opposizione al governo collaborazionista con gli invasori occidentali, la offrono anche gli imam che incoraggiano le famiglie a spedire i figli nelle madrase dove istruzione e predicazione sono ampiamente favorevoli al Jihad. Per quei ragazzi il futuro ha strade obbligate, dirette verso la religione o la militanza combattente. Nei casi osservati si nota che le province sono in buona percentuale (che non scende mai sotto il 50%) controllate da milizie talebane, composte da uzbeki, tajiki, pashtun. Il reclutamento è continuo, esistono campi d’addestramento al combattimento corpo a corpo, con armi leggere e anche all’uso di esplosivi. Sul tema vengono confezionati video promozionali. Anche quando alcuni di questi governatori-ombra sono fermati e arrestati con operazioni repressive (sostenute dai marines statunitensi), il reclutamento non si blocca né diminuisce. I giovani miliziani d’etnìa uzbeka ostentano l’appartenenza e impegnano la propria fedeltà al nuovo emiro e ai suoi rappresentanti locali, una battaglia contro cui l’attuale governo ha provato a schierare anche un pezzo da novanta delle storiche guerre interne: il generale uzbeko Dostum, dal 2014 vicepresidente afghano.
Uomo sopravvissuto a ogni stagione e bandiera: nel 1980 combatté per il governo filo sovietico, venne poi foraggiato dagli Stati Uniti, durante la guerra civile (1992-96) contribuì a distruggere Kabul. Ha guerreggiato contro mujaheddin e taliban ma, come altri warlords soprattutto per se stesso, non ha disdegnato esecuzioni sommarie e fosse comuni per i prigionieri islamisti. Nonostante la non verde età (ora ha 63 anni) è tornato a usare nomea e carisma militari al fine di spezzare l’uzbekizzazione dell’insorgenza in quelle province del nord, anche con le consolidate maniere spicce, tanto che alcuni degli abusi sui civili menzionati dall’Unama nel 2015 sono ascrivibili alle sue truppe. L’amministrazione Ghani ovviamente nasconde le malefatte, figurarsi la Casa Bianca... Di fatto l’utilizzo del vecchio arnese della guerra per bande ha solo rinfocolato la sua forza e la sua boria, l’esercito afghano non ne ha tratto beneficio tecnico né d’immagine mentre le giovani generazioni uzbeke non hanno ceduto granché al fascino del vecchio combattente. Chi può fugge attraverso l’Iran verso i confini turchi e oltre, chi resta può scegliere fra i mercenari del vicepresidente o i miliziani di Akhundzada. Forse c’è diversità di trattamento economico, ma i taliban gettano sul piatto i temi della fede e una non secondaria ipoteca sul potere. A tutt’oggi quest’ultimi sembrano pagare.
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