Redazione di Voce Jugoslava su Radio Città Aperta
La
primavera ha fatto irruzione a Belgrado con una temperatura media di 25
gradi di giorno – molto meno di notte, come in ogni clima continentale
che si rispetti. Sono giornate limpide e colorate da una splendida
fioritura di violette, adatte a una campagna elettorale energica e
aggressiva come è quella per le elezioni presidenziali in calendario il prossimo 2 aprile.
Sono però anche i giorni dell'anniversario dell'inizio della aggressione della NATO (24 marzo 1999).
Quella ferita non è rimarginata, nonostante il tempo passato, le
ristrutturazioni di molti degli edifici bombardati, che fanno storcere
il naso a chi non vuole dimenticare, e i nuovi rapporti politici,
sociali e macro-economici instauratisi dopo il "cambio di regime". Le
strade di Belgrado si sono riempite di insegne luminose in stile
occidentale, la viabilità ha subito trasformazioni importanti – con la
costruzione di nuove autostrade e spettacolari ponti sui fiumi Sava e
Danubio, anche grazie all'imprenditoria cinese. I nuovi ponti non
cancellano però dai cuori le immagini di quelli "colpiti e affondati"
dalla NATO né di quelli occupati da migliaia di cittadini che, urlando
slogan e ballando, in quella primavera del 1999 mostravano al mondo
intero fieramente i cartelli con la scritta TARGET.
L'anniversario
a Belgrado è celebrato nell'arco di un paio di giorni attraverso
qualche conferenza con tema geopolitico e cerimonie in memoria dei
caduti; la campagna elettorale potrebbe invece durare fino al 16 aprile,
in caso di ballottaggio.
L'opzione più probabile, e certamente la meno
peggio da vari punti di vista, date le condizioni reali esistenti, è che
vinca l'attuale primo ministro Aleksandar Vučić, che darebbe
così il cambio al suo compagno di partito Tomislav Nikolić. Alle ultime
elezioni politiche il loro Partito Progressista Serbo (SNS, una
scissione moderata del Partito Radicale di Šešelj) ha incassato oltre il
48% dei voti. I due in tandem hanno gestito in questi anni la cosa
pubblica e la collocazione della Serbia sulla scena internazionale con
pacatezza ed equilibrio, riuscendo a garantire il posizionamento "centrale" del paese nella contesa sempre più dura apertasi tra Occidente e Federazione Russa:
una contesa culminata con la guerra civile in Ucraina, che sotto
numerosi aspetti assomiglia alla guerra – fratricida e imperialista
assieme – che ha cancellato la Jugoslavia dalle carte geografiche tra il
1991 e il 2008 ed i cui strascichi permangono sotto forma di gravi
tensioni e sfacciate ingerenze esterne.
Non
è questa la sede per approfondimenti sulla situazione in tutta l'area,
ma per comprendere la precarietà quasi miracolosa dell'equilibrio serbo
vanno richiamate le delicatissime situazioni esistenti nei paesi vicini.
Nella FYROM (Macedonia di Skoplje), essendo fallito il progetto
terrorista pan-albanese con la operazione di Kumanovo del maggio 2015,
UE e NATO da molti mesi lavorano a rinfocolare lo scontro politico ed
etnico cercando di imporre un governo socialdemocratico sostenuto dai
secessionisti albanofoni al posto dell'attuale governo di impronta
patriottica. In Montenegro, le stesse UE e NATO lo scorso ottobre
hanno "coperto" l'ennesimo "golpe bianco" del "presidente eterno", il
camorrista Milo Djukanović, che ha inscenato una operazione
mediatico-repressiva proprio nel giorno delle elezioni politiche,
garantendo così la vittoria formale del blocco atlantista che sta
portando il piccolo paese nella NATO contro la volontà della maggioranza
della sua popolazione. In Bosnia-Erzegovina la Repubblica Srpska
difende con i denti alcune prerogative di sovranità che in tutti i modi
il regime semicoloniale, instaurato dopo gli Accordi di Dayton, le
vuole sottrarre: principale tra tutti, anche in questo caso, è il
diritto a non entrare a far parte della NATO contro la volontà del
proprio popolo, anch'esso bombardato nel 1994-1996.
Per quanto dunque riguarda la Serbia, il focolaio principale di crisi rimane ovviamente (lo è da 30 anni a questa parte) il Kosovo,
che i paesi NATO hanno provato a strapparle a forza di atti militari e
diplomatici unilaterali e illegali (1). Violenze, ingiustizie,
provocazioni e polemiche non sono mai cessate dal giugno 1999 (momento
della occupazione congiunta NATO-UCK del territorio) in poi, inclusa
ovviamente la dichiarazione di indipendenza del 2008. Però sono adesso
all'ordine del giorno nuovi passaggi simbolici dalla valenza
potenzialmente lacerante, in particolare: la nuova decisione del
"Parlamento" di Pristina di "nazionalizzare" i beni jugoslavi
(ricordiamo la straordinaria ricchezza mineraria di quel territorio e
tutte le infrastrutture industriali ad essa collegate) e l'annuncio
della formazione di un "esercito del Kosovo" (fatto su misura,
ovviamente, per la adesione alla NATO).
Ritornando
dunque ai leader SNS, data la preoccupante situazione al contorno e
globale, il loro equilibrio è apprezzato da tutti i soggetti
internazionali: da Occidente – si pensi al gesto della visita di Vučić a
Srebrenica – come da Oriente – visti i rapporti sempre più stretti,
specialmente dal lato economico, con la Cina e ovviamente la Russia, con
cui è stato stretto un accordo di partnership strategica nel 2014. In
virtù di tale equilibrio, che potremmo definire opportunistico,
gli anni del governo SNS sono stati finora contrassegnati dalla
accumulazione di energie, anche economiche, nel segno ovviamente del
nuovo corso liberista seguito al golpe dell'ottobre 2000.
Un orientamento liberista più acceso è propugnato dai candidati alla presidenza filo-occidentali: dall'ex "difensore civico" (ombudsman) Janković all’ex premier Živković ("Partito Nuovo"), dall’ex ministro degli Esteri Jeremić
(di recente candidato a Segretario Generale dell’ONU, ma
significativamente sgradito anche alla Russia) all’ex ministro
dell’Economia Radulović, ed altri ancora. Tutti costoro erano però assenti dal Parlamento il giorno della visita della Rappresentante dell'UE Mogherini,
a causa di una controproducente protesta che hanno voluto inscenare
contro la sospensione della attività parlamentare in campagna
elettorale. Nel Parlamento della capitale serba la Mogherini non ha
trovato perciò applausi, come avrebbe voluto, bensì la sonora e plateale
contestazione da parte dei deputati delle opposizioni di destra, cioè
Dveri e il Partito Radicale con Vojslav Šešelj in testa. Dinanzi alla contestazione «Vučić,
impassibile tra le fila della maggioranza di governo, è apparso ancora
una volta come l’unico interlocutore possibile per l’UE»
(2). Allo stesso Šešelj il circo mediatico, evidentemente diretto da
"spin doctors" assai professionali formatisi in chissà quali istituti
anglosassoni, ha attribuito il ruolo di candidato per eccellenza della
parte più apertamente anti-europeista e anti-occidentale dell'opinione
pubblica; alle consuete scritte sui muri ed ai manifesti scoloriti
affissi dai militanti si sono aggiunti in queste settimane molti
manifesti patinatissimi e bene illuminati che ne espongono il faccione
con insistenza. Oltre al provocatorio Šešelj, sul fronte nazionalista
alle elezioni c'è il rappresentante di Dveri, Obradović, ed il debole candidato del partito DSS che fu di Koštunica – Popović.
La sinistra non presenta candidati. I socialisti (SPS e Movimento dei Socialisti) sono oramai da molti anni in coalizione con l'SNS e dunque appoggiano Vučić. La sinistra di classe doveva essere rappresentata da Zeljko Veselinović,
coordinatore del sindacato SLOGA (federato alla Federazione Sindacale
Mondiale), per la iniziativa civica "Il lavoratore non è merce": ma
appena il 5 marzo con una dichiarazione pubblica rilasciata via YouTube
Veselinović ha comunicato che "a causa delle condizioni impossibili"
(spec. dal punto di vista economico) poste per la presentazione della
lista e la partecipazione alle elezioni, doveva rinunciare alla
competizione. È l'ennesima volta che le formazioni anticapitaliste sono
tenute fuori dalle competizioni elettorali tramite tagliole burocratiche
e finanziarie.
La UE si lagna della crescita dell'influenza russa in Serbia
(3), ma ha poco da piangere sul latte versato essendo questo uno dei
frutti di quanto ha essa stessa seminato nel corso dell'ultimo quarto di
secolo. Non si può dimenticare che la UE ha responsabilità non minori
di quelle statunitensi nel determinarsi del disastro jugoslavo: proprio
contestualmente al suo atto fondativo, il 17 dicembre 1991, a
Maastricht, la allora Comunità Europea per diktat tedesco sacrificò
l'unità jugoslava e con essa la pace nel continente (4). Il 23 dicembre
successivo, come preannunciato a Maastricht, la Germania dichiarava
unilateralmente e pubblicamente il suo riconoscimento delle repubbliche
di Croazia e Slovenia, con effetto a partire dal 15 gennaio successivo;
il 13 gennaio 1992 era però la Città del Vaticano a precedere tutti,
riconoscendo la Croazia come stato indipendente, seguita due giorni dopo
da tutti i paesi della UE.
Incontestabile
fu dunque l'analisi di Slobodan Milošević, che dinanzi al “Tribunale
ad hoc” dell'Aia, il 30 gennaio 2002 disse: «C'era un piano evidente contro quello Stato di allora [la Jugoslavia] che era, direi, un modello per il futuro federalismo europeo.»
Necessariamente, anche post-mortem Milošević rimane il convitato di
pietra di ogni passaggio politico in Serbia, e quindi pure in queste
elezioni. Proprio negli stessi giorni della visita della Mogherini,
nell'altro anniversario marzolino – quello del giorno 11, quando nel
2006 il cadavere di Milošević fu ritrovato nella cella dell'Aia – a
Belgrado la associazione SloboDA (che vuol dire "Slobo SI" ma anche
"Libertà") ha presentato pubblicamente il testo "Anatomia di un assassinio giudiziario"
(5), contenente tutta la documentazione forense e amministrativa che
dimostra come all'interno del "Tribunale ad hoc" sia stato pianificato e
realizzato l'omicidio dell'ultimo presidente jugoslavo, vittima della
somministrazione intenzionalmente scorretta di un farmaco in grado di
causare sbalzi di pressione esiziali per un cardiopatico.
In
effetti in Serbia il nodo del "cambio di regime", dal colpo di Stato
dell'ottobre 2000 alla uccisione di Milošević all'Aia nel 2006, rimane
sotto traccia nella vita politica e nella coscienza popolare nonostante
la disinformazione strategica impartita in dosi massicce da un sistema
mediatico fortemente condizionato dai monopoli capitalistici. A Belgrado
capita di trovare persone che ti dicono seriamente che "Milošević in
realtà fu portato a Mosca di nascosto ed è ancora vivo"... ultima favola
giornalistica dopo altre surreali bufale, come quella di "Tito agente
del Vaticano".
Ancora più chiaro di Milošević nel giudizio sull'Europa è stato solamente il grande drammaturgo tedesco Peter Handke: «Per
me la Jugoslavia era l'Europa... La Jugoslavia, per quanto frammentata
sia potuta essere, era il modello per l'Europa del futuro. Non l'Europa
come è adesso, la nostra Europa in un certo senso artificiale, con le
sue zone di libero scambio, ma un posto in cui nazionalità diverse
vivono mischiate l'una con l'altra, specialmente come facevano i giovani
in Jugoslavia, anche dopo la morte di Tito. Ecco, penso che quella sia
l'Europa, per come io la vorrei. Perciò, in me l'immagine dell'Europa è stata distrutta con la distruzione della Jugoslavia.»
(6) Questo è l'epitaffio che campeggia sulla tomba del progetto europeo
sin dal 1991, e che i manifestanti del 25 marzo a Roma, dopo tante
inequivocabili ulteriori verifiche (basti pensare ai casi ucraino o
greco) potrebbero fare proprio con pieno diritto.
NOTE
1)
La Risoluzione ONU 1244 del 1999, con cui si è conclusa la aggressione
NATO, sulla carta ribadisce la sovranità della Serbia sulla provincia
del Kosovo-Metohija.
2) G. Vale: Serbia: il premier sogna da presidente (Affari Internazionali, 15/03/2017)
http://www.
http://www.
3) L'Unione Europea teme la crescita dell'influenza russa in Serbia (Sputnik News, 20.03.2017)
https://it.sputniknews.com/
https://it.sputniknews.com/
4)
La cinica trattativa è stata raccontata anche Gianni De Michelis, che
vi partecipò (Si veda ad es. Limes n.3/1996. Di essa rimane anche
traccia formale nel documento UE numero 1342, seconda parte, del
6/11/1992.
5)
Il libro "Anatomija sudskog ubistva" è in corso di traduzione a cura di
Jugocoord Onlus, che su questi temi sta per lanciare una serie di
attività concordate con SloboDA.
6) Intervista al giornalista televisivo tedesco Martin Lettmayer, gennaio 1997.
Sul tema delle responsabilità europee in Serbia si consiglia anche la lettura di
A. Martocchia: Nessuna Europa senza la Jugoslavia (su Marx21 / L'Ernesto n.3-4/2011)
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