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31/03/2017

Italia-Unione Europea. Ancora una volta anello debole

Scricchiolii, centralizzazione, stretta organizzativa, cessione di sovranità, doppia o tripla velocità… L’Unione Europea, all’indomani dell’apertura ufficiale della procedura d’addio britannica, si trova a dover decidere rapidamente il nuovo assetto, ma senza poterlo fare davvero.

I tre paesi chiave della comunità sono tutti in campagna elettorale e non si potrà mettere intorno al tavolo i rispettivi leader fin quando non se ne conoscerà il nome e – come direbbe il questore di Roma – “l’orientamento ideologico”.

L’offensiva “europeista” contro i cosiddetti populismi ha messo al centro per mesi il rischio rappresentato da Germania (Alternative fur Deutschland) e Francia (il Front Nationale di Marine Le Pen), ma col passare del tempo si è dovuto prendere atto che da lì non viene per ora alcun pericolo. Per quanto la crisi abbia eroso il modello sociale e politico di Parigi, e anche i criteri di “etica pubblica” (mai si era visto un caso come quello di Fillon non tradursi subito in un ritiro dalla scena politica), resta in piedi la conventio ad exludendum nei confronti dei fascisti; che non hanno alcuna speranza di diventare maggioranza assoluta. Ancor più tranquilla la situazione a Berlino, la patria del surplus di bilancio, dove la “svoltarella a sinistra” della Spd di Schultz è stata sufficiente a mandare in pezzi il consenso che si andava accumulando intorno a Frauke Petry.

Il vero bubbone sistemico tra i “tre grandi” residui è come sempre l’Italia. Fallita la spallata contro-costituzionale di Renzi, amputato del ballottaggio l’Italicum, si andrà al voto per ultimi e con la quasi certezza di un Parlamento frammentato, senza un dominus in grado di imporre una direzione di marcia sicura. Anche se dovesse tornare in sella Renzi, insomma, avrebbe a disposizione una maggioranza di coalizione, dove la contrattazione quotidiana prevarrebbe ben presto su qualsiasi progettualità.

La classe politica nazionale, del resto, è stata selezionata al contrario, premiando i servi obbedienti a scapito di chiunque avesse una statura minimamente al di sopra della media. Per questo appare illusoria la speranza che emerga “una definita idea italiana di Europa”, in grado trarre profitto dall’indebolimento – causa Brexit – dell’“asse del Nord”.

Anche i più navigati analisti, come Lucio Caracciolo, arrivati al dunque devono fare i conti con le opportunità e le necessità da un lato e l’assenza di “statisti” dall’altro. E dire che mai come ora si è aperta, per cause di forza maggiore, una stagione di indispensabile riscrittura dei trattati europei. Ovvero una finestra di opportunità in cui una classe politica nazionale, capitalisticamente adeguata, potrebbe far valere meglio gli interessi di quel che resta dell’impresa italiana.

Al contrario, gli standard che andranno obbligatoriamente raggiunti per poter restare nel “gruppo d’avanguardia”, nella “prima fascia” dei paesi che si avviano a una maggiore integrazione, si tradurranno facilmente in un massacro sociale di dimensioni greche. Con inevitabile messa in discussione del consenso politico di massa, ben al di sopra dei livelli fin qui registrati. Vanno dunque inquadrati da questo punto di vista i “decreti” liberticidi a firma di Minniti, Orlando e Gentiloni, sia in materia di “ordine pubblico e decoro urbano”, sia in materia di regolazione dei flussi migratori.

Gioco facile, peraltro, finché resta in vita questo Parlamento di nominati senza onore né gloria. Ma che potrebbe diventare assai più complicato nel prossimo, vuoi per la prevedibile assenza di una maggioranza politicamente certa e stabile, vuoi per la sicura presenza di una opposizione forte – per quanto sconclusionata – come quella pentastellata.

Ma la debolezza del sistema politico italiano – specchio fedele della sua rinsecchita capacità produttiva (al di fuori dei tratti connessi alla filiera tedesca) – può diventare un problema non solo per “la difesa degli interessi del capitale italiano”, ma anche e soprattutto per la tenuta della struttura dell’Unione Europea.
“Possiamo non farlo (proporre una definita idea italiana d’Europa, ndr). Nel quale caso, l’Europea rischierà il definitivo collasso. O si rifarà altrove, senza di noi. Costituendosi in costellazioni affini, tra loro separate. Nascerà così una sub-Europa germanica. Forse con un pezzo d’Italia, quella più settentrionale, già largamente integrata nella catena del valore tedesca. Perciò tentata dall’abbandonare il resto della penisola alla deriva mediterranea pur di restare periferia dell’eurofamiglia nordica. Se ci siamo, è ora di battere un colpo”.
Come si vede, il vero dibattito non avviene sul palcoscenico della politica mediatizzata quotidianamente. I veri obiettivi e i veri rischi non hanno nulla a che fare con i “populismi”, ma col rimescolamento degli assetti economici e istituzionali in vista della creazione effettiva del “polo europeo” incaricato di “competere” alla pari con Cina, Russia e, ormai, anche con gli Stati Uniti.

Un dibattito da cui è palesemente assente l’unico convitato che nessuno di quei soggetti inviterà mai: il mondo del lavoro, i giovani e i pensionati, le popolazioni che vivono in questo paese e nel resto d’Europa.

In effetti, è proprio “ora di battere un colpo”.

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