Andando oltre le voci che parlano di una
possibile discesa in campo di Mark Zuckerberg in politica, sono da
cogliere con attenzione i suoi pensieri degli ultimi giorni in cui mette a disamina il presente dal suo punto di vista.
Il fondatore, nonché l'esponente più in vista del colosso aziendale Facebook,
si pone come un punto di riferimento della globalizzazione ai tempi
della “crisi”, affermando sostanzialmente di essere colui che, insieme
ai detentori del comando sulle IT, può dare una sterzata sostanziale
all'ondata di rifiuto degli effetti funesti della globalizzazione stessa
incarnata in maniera altamente contraddittoria da Trump
(nonché dall'incapacità dei liberals di uscire dall'empasse
dialettica non solo con il presidente magnate, ma con le classi meno
agiate che lo stanno contestando apertamente negli States).
(A tal proposito, rimandiamo alla lettura dell' e-book pubblicato dalla redazione dopo le proteste del 20-21 Gennaio a Washington]
Zuckerberg
assume a sé la pretesa di essere il capopopolo di una presunta comunità
mondiale quale quella che ogni giorno si avvale della sua
infrastruttura informatica, facendo fatturare alla sua azienda cifre
cubitali senza che poi ci sia alcuna redistribuzione dei proventi al di
là del livello manageriale. In questo senso è proprio Facebook a
rappresentare in modo lapalissiano la distanza abissale che intercorre
tra classi nel mondo contemporaneo, alla pari dei grattacieli di Dubai e
altri; distanza tra potenti e deboli che è uno dei fattori centrali che
stanno innescando meccanismi di rifiuto del dogma neoliberista negli
stati occidentali.
Il “noi”
da lui usato connotando chi vorrebbe un mondo diverso dagli
isolazionismi e dai rigurgiti che affiorano in “occidente” è in sostanza
il noi da lui plasmato tramite l'infrastruttura che ha preso piede in
concomitanza con la ristrutturazione capitalistica a
livello finanziario: per Zuckerberg questo “noi”, rispecchiando la sua
volontà, dovrebbe esigere ora una ulteriore ristrutturazione
neoliberista, globalizzando i processi di normazione dei comportamenti
che dal virtuale poi si riproducono nel materiale, in maniera omologante.
Questo intento dai
risvolti socio-pedagogici trapelato da Zuckerberg rilancia di fatto
l'idea che non si debbano mettere in discussione i pilastri su cui si
sta cementando l'attuale società, ma ridefinire il peso politico degli
elementi che li compongono, istituzionalizzando ed estendendo il potere
delle multinazionali che concorrono attraverso il mercato agli asset sociali degli Stati.
Il tutto condito come una sorta di social-democrazia 2.0 che come primo effetto avrebbe indubbiamente la lesione delle libertà personali all'interno di un mondo che, dal punto di vista dell'establishment, ha bisogno di un controllo sempre più stringente e dettato dagli algoritmi, pena nuove grosse perdite di profitto.
Peccato che al “mondo di sotto”, lo stesso che in diverse forme contesta l'ideologia primatista di Trump, aldilà dell'affabulazione e dei discorsi di Zuckerberg, interessino in primis reddito e beni primari che non collimano con “la causa comune” che le élites neoliberali paiono giocare come carta facendo leva sulla figura sveglia e intraprendente dell'imprenditore statunitense...
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