Torna Don Winslow, ormai a rischio serialità. Il filone è quello
della corruzione nella polizia e negli apparati burocratici del potere
statunitense, d’ambientazione newyorkese (Missing. New York) ma
diverso dalla sua narrativa sul narcotraffico (California, Messico). La
storia è basilare: Dennis Malone è un poliziotto scelto a capo di
un’unità d’élite della polizia di New York, la task force di Manhattan North creata col compito di stroncare i cartelli della droga che imperversano ad Harlem. Si scopre che non solo tutti gli
appartenenti a questo corpo scelto hanno legami con i cartelli del
narcotraffico, ma che nel frattempo si muovono essi stessi come vero e
proprio cartello, sequestrando e rivendendo droga. In questa spirale
perversa che risucchia torti e ragioni tutti sono complici, dai colleghi
ai diretti superiori, dall’Fbi alla politica municipale. La conclusione
rimanda alle consuete domande della narrativa winslowiana, riguardo al
labile (labilissimo) confine tra il potere legale e il contropotere
criminale, tra presunti buoni e altrettanto immaginati cattivi.
In questo romanzo Don Winslow ci dice alcune cose sostanziali. La
prima, che la corruzione dilaga anche tra chi dovrebbe combatterla. La
seconda, che tale corruzione riguarda tutti i livelli del potere
burocratico, da quelli direttamente organizzativi ai piani alti della
politica. La terza, che le motivazioni vanno ricercate in un circuito
velenoso di processi causali secondo i quali la violenza genera
disillusione, questa sfocia nella più completa rassegnazione, a sua
volta alla radice della amoralità che feconda il cancro della
corruzione, generando ulteriore violenza e ancora più rassegnazione. Una
perversione sociale in cui sfumano i contorni dei “buoni” e dei
“cattivi”, perché buoni e cattivi sono in realtà la stessa cosa.
Nonostante le tematiche ricorrenti, siamo in presenza di un notevole
impoverimento tanto dei contenuti quanto dello stile winslowiano. Per
tornare ai caratteri essenziali ricordati poc’anzi, quello della
“polizia corrotta” è un topos letterario vecchio come la
letteratura americana. La forza del Winslow maturo stava proprio nel
disvelamento di questa corruzione, che non è un processo di decadimento
burocratico ma il frutto di una strategia politica di sostanziale
convergenza coi contropoteri criminali. La gestione della società
impone, per i diversi poteri che la controllano (politica, media,
narcotrafficanti, imprenditoria, eccetera), una convergenza di fatto che
si trasforma in modello politico. In Corruzione siamo tornati all’avidità personale, alla rassegnazione di fronte al male inevitabile che, in forme contorte e ambigue, giustifica l’amoralità di chi “sta sul campo” o “in prima linea”.
Tutti i livelli burocratici sono coinvolti, ma non tutti i presunti
copri intermedi sono coinvolti nello stesso modo, ci racconta Winslow.
Si salvano, in forma tragicamente equivoca, i media, e scompare la
politica, se non costretta, sembrerebbe per “ragioni di forza maggiore”,
alla trattativa col mondo criminale. Il circuito perverso che alla fine
della fiera sembra “comprendere” le ragioni della corruzione dei
livelli più bassi – i poliziotti, per intenderci – è pure totalmente
sballato e reazionario. Come detto, le motivazioni politiche, che poi
sono il frutto della gestione capitalistica della società americana,
vengono meno concentrando tutta l’attenzione su una somma di avidità
individuali che affascinano il lettore sprovveduto ma totalmente
incapaci di spiegare alcunché dei processi reali che stanno alla base
della corruzione. Insomma, se ne Il potere del cane o ne Il cartello non
si salvava nessuno, qui invece c’è una selezione che sottrae alla resa
dei conti proprio chi porta sulle proprie spalle le responsabilità maggiori
della crisi endemica della società capitalistica (di qualsiasi società, e in particolar modo quella statunitense).
Riguardo allo stile, c’è una torsione addirittura à la Don
Brown del racconto che non fa onore ad un autore pure importante. Certo
il romanzo scorre sin troppo velocemente. 542 pagine che si potrebbero
leggere addirittura in un giorno. Ma tra leggibilità e facilità scorre il confine tra lo scrittore capace e quello mainstream, tra
chi possiede le chiavi della comprensibilità e chi sfrutta ogni luogo
comune per attirare nella rete il lettore estivo: i poliziotti sono
tutti novelli ispettori Callaghan, duri e puri che nella battaglia
contro l’orrore mafioso finiscono risucchiati loro malgrado nella corruzione.
Il modo in cui viene trattato lo scontro razziale conclude la
traiettoria involutiva del romanzo. Chi combatte la segregazione etnica e
sociale della popolazione nera americana è trattato da vero e proprio
cacacazzi in oggettiva combutta col contropotere criminale capace di
infilarsi nelle contraddizioni della politica liberale. La “lotta alla
droga” va ben al di là di qualche nero ammazzato, coi “giornalisti”
sempre in cerca di motivi per delegittimare l’azione della polizia per
difendere associazioni di solidarietà antirazzista in definitiva, si
dice a volte espressamente a volte lasciandolo intendere, corrotte tanto
quanto il resto della società.
In conclusione. Il libro si apre con una citazione in esergo di
Raymond Chandler. Non a caso. Con questo romanzo Winslow fa propria
l’illusione chandleriana, la crisi come fatto privato tra cattivi ed
eroi, protagonisti contraddittori eppure morali. Lo schematismo
assolutorio chandleriano non è replicato tale e quale (la condanna in
Winslow è generale, ma è solo di facciata), ma se col Potere del cane Winslow aveva saputo mettersi al fianco dei grandi, quantomeno per le tematiche suscitate, con questo Corruzione siamo ancora al mondo delle guardie e dei ladri. Per quanto imbarbariti possono essere i poliziotti, sono ancora dei nostri.
Avremmo bisogno, al contrario, di chi ci sottrae a questa falsa
dicotomia. Ancora lontani sembrano i tempi di Hammett, Thompson o
Ellroy.
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