Parte Prima. L’ideologia dominante è il cosmopolitismo, non il nazionalismo
È possibile definire realisticamente una linea politica internazionalista in Europa soltanto mettendo al suo centro il tema dell’uscita dall’euro. Eppure, a sinistra molti continuano a opporsi all’uscita dall’euro, adducendo due tipologie di motivazioni, di carattere economico e politico-ideologico. Sebbene le motivazioni economiche siano certamente importanti, ritengo che a incidere maggiormente sul rifiuto a prendere persino in considerazione l’ipotesi di uscire dall’euro, fra la sinistra e più in generale, siano le motivazioni politico-ideologiche. Infatti, le motivazioni politico-ideologiche appaiono meno “tecniche” e maggiormente comprensibili. Soprattutto, fanno riferimento a un senso comune profondamente radicato nella sinistra e nella società italiana.
La principale motivazione politico-ideologica ritiene l’uscita dall’euro politicamente regressiva, perché rappresenterebbe il ritorno alla nazione. Ciò significherebbe di per sé il ritorno al nazionalismo e l’assunzione di una posizione di destra, con la quale ci si allineerebbe implicitamente alle posizioni del Front National in Francia e della Lega Nord in Italia. Una variante di questa posizione ritiene che il ritorno alla nazione, oltre che di destra, sia inadeguato allo svolgimento di lotte efficaci, a causa delle dimensione ormai globale raggiunta dal capitale.
Tali posizioni si intrecciano in chi, come Toni Negri, pensa che la globalizzazione “è stata l’effetto di un secolo di lotte ed ha rappresentato una grande vittoria proletaria”. In particolare, per i lavoratori dei paesi avanzati il globale è una modalità di vita per rompere con “la barbara identità nazionale”(1).
Miopi noi ad aver sempre pensato, con Marx e soprattutto con i fatti, che la globalizzazione fosse una risposta del capitale per risolvere la sua sovraccumulazione e la caduta del saggio di profitto, mediante la riduzione dei salari e del welfare. Del resto, è una ben strana vittoria quella che modifica i rapporti di forza a sfavore del lavoro salariato.
Ad ogni modo, le motivazioni politiche contro l’euro si basano su false premesse, anche se il tema del rapporto tra nazione e lotta di classe non va preso alla leggera. Proprio per questo il principio da cui partire è che la questione della nazione va affrontata non in astratto ma in concreto, cioè partendo dall’analisi dei rapporti di produzione, per come essi si manifestano nella fase attuale del capitalismo. Il timore di ricadere nel nazionalismo affonda le sue radici nella storia del Novecento, quando i nazionalismi furono alla base dei fascismi e ad essi si attribuì la causa dello scoppio della Prima e della Seconda guerra mondiale. Altiero Spinelli e gli altri redattori del Manifesto di Ventotene, fino a oggi punto di riferimento della sinistra europeista, estesero la loro avversione dal nazionalismo allo stato nazionale, o meglio alla “sovranità assoluta” dello stato nazionale, intesa come male assoluto, origine della guerra e del fascismo. Infatti, secondo Spinelli, la linea di demarcazione tra progressisti e reazionari non sarebbe dovuta più passare per la maggiore o minore democrazia o per la forma dei rapporti di produzione, cioè tra capitalismo e socialismo, ma tra l’essere o per lo stato nazionale o per lo stato internazionale. Essi vedevano nello sviluppo di un’Europa unita e nel superamento del capitalismo autarchico verso il libero commercio non solo un antidoto alla guerra ma anche il migliore mezzo di contrasto all’influenza dei partiti comunisti in Europa. Del resto, nel Manifesto di Ventotene la socializzazione dei mezzi di produzione viene vista come un’utopia e una “erronea deduzione” dai principi del socialismo, che porta necessariamente alla dittatura burocratica. Mentre l’Urss combatte una lotta feroce contro il nazismo e a fianco degli angloamericani, il Manifesto sembra soprattutto preoccupato di prendere le misure ai nuovi alleati in vista della ridefinizione degli assetti politici del dopo-guerra: “Una situazione dove i comunisti contassero come forza politica dominante significherebbe non uno sviluppo in senso rivoluzionario ma già il fallimento del rinnovamento europeo.”(2)
Il nazionalismo, però, più che la causa primaria fu l’effetto di un determinato contesto. Esso ha rappresentato la forma ideologica adeguata a una specifica fase storica dei rapporti di produzione capitalistici, che alcuni, come l’economista e dirigente del PCI Pietro Grifone, hanno definito capitalismo monopolistico di stato (3).
Durante quel periodo storico l’accumulazione capitalistica avveniva soprattutto su base nazionale, mentre il suo espansionismo estero avveniva nella forma dell’imperialismo nazionale e territoriale. La tendenza si accentuò negli anni ’30 con l’economia cosiddetta autarchica. Gli scambi di merci e di capitali avvenivano soprattutto tra la singola potenza imperialista e le sue colonie. È ovvio che, in un tale contesto, lo stato avesse un ruolo più interventista e diretto nell’economia. La causa scatenante delle due guerre mondiali fu la crisi capitalistica e il conseguente acutizzarsi delle contraddizioni inter-imperialistiche, nella forma della competizione per la conquista di imperi territoriali. Le ideologie nazionalistiche, come lo stesso fascismo, furono lo strumento per la mobilitazione delle masse per l’espansione del capitale nazionale uscito dalla Prima guerra mondiale schiacciato dalle condizioni di pace, come nel caso della Germania, o frustrato nelle sue aspirazioni territoriali, come nel caso dell’Italia e del Giappone. Del resto, il fascismo, dopo la prima fase movimentistica e piccolo borghese, mutuò il suo programma e i suoi quadri dirigenti dall’Associazione nazionalista italiana, di piccole dimensioni ma espressione organica dell’imperialismo industriale del grande capitale italiano.
Oggi, la forma del modo di produzione capitalistico è molto diversa, in quanto l’accumulazione non avviene che in parte su base nazionale. Dalla forma di capitalismo monopolistico di stato si è passati alla forma di capitalismo globalizzato (4). In quest’ultima il capitale realizza i suoi profitti soprattutto su base internazionale, mediante investimenti di portafoglio e investimenti diretti all’estero (IDE). L’obiettivo è realizzare economie di scala a livello internazionale, basate sullo spostamento di quote di produzione dai Paesi del centro a quelli periferici, a basso costo del lavoro, e su operazioni di fusione e integrazione dei capitali del centro a livello sovrastatale. Le imprese che contano sono multinazionali o transnazionali e l’imperialismo non si basa più su imperi territoriali, ma sulla capacità di comando mediante il controllo dei movimenti internazionali di capitale, di merci, di materie prime, di tecnologia. Senza trascurare, però, la capacità di intervento militare “fuori area” e l’uso di guerre per procura. Naturalmente anche l’ideologia si è adeguata a tali trasformazioni abbandonando il nazionalismo, ormai desueto, e abbracciando il cosmopolitismo. Nella misura in cui l’integrazione europea (specie monetaria) favorisce i suddetti processi del capitale, l’ideologia europeista è articolazione diretta, in Europa, dell’ideologia cosmopolita, che non va assolutamente confusa con quella internazionalista.
I classici del marxismo, compresi Luxemburg e Lenin (5), hanno definito quella nazionale come la forma statuale tipica del capitalismo. Ciò è sicuramente vero soprattutto per quanto riguarda la fase di sviluppo del capitalismo industriale moderno, avvenuta nel corso delle lotte democratico-liberali tra 1789 e 1871, e nella quale essi vivevano e lottavano. L’unione statale su base nazionale è stata fondamentale per il passaggio del capitalismo a una fase superiore di sviluppo, perché consentiva di riunire i mercati frammentati degli staterelli allora esistenti, partendo da un fattore di unificazione molto forte, la lingua. In questo modo, l’Italia e soprattutto la Germania riuscirono a decollare dal punto di vista industriale, raggiungendo e superando (nel caso della Germania) gli stati nazionali più vecchi come la Gran Bretagna e la Francia. Tuttavia, si trattava di una forma necessaria e sufficiente in quella fase. Nelle fasi storiche precedenti il capitalismo aveva assunto altre forme, tanto che, secondo Giovanni Arrighi, nella sua storia il capitalismo oscilla tra due tipologie, il capitalismo monopolistico di stato, il cui tipo ideale era la Repubblica di Venezia, e il capitalismo cosmopolita, il cui tipo ideale era il capitalismo finanziario della Repubblica di Genova (6). Nella prima la stato era forte e aveva un ruolo importante nell’economia, nella seconda lo stato era quasi inesistente e lasciava l’iniziativa economica, compresa quella coloniale, ai privati.
Ovviamente si tratta di due estremi e, di solito, le concrete manifestazioni dello Stato e dei rapporti di produzione capitalistici contengono, a seconda dei periodi, quote dell’una e dell’altra forma in percentuali variabili. La Ue e più ancora l’Unione economica e monetaria (Uem) sono la manifestazione di una fase del capitalismo nella quale l’elemento cosmopolita ha maggiore peso sia rispetto alla fase classica dell’imperialismo territoriale degli anni tra il 1890 e il 1940, sia rispetto alla fase di decolonizzazione e di pre-globalizzazione tra 1945 e 1989. La Uem, infatti, favorendo e accentuando la fuoriuscita dei meccanismi dell’accumulazione dal perimetro di controllo dello stato, asseconda lo spostamento del baricentro dell’accumulazione dal livello nazionale al livello sovranazionale. Un movimento verso cui il capitale tende spontaneamente in un fase di sovraccumulazione e di crisi strutturale, durante la quale sconta una tendenza cronica all’abbassamento della redditività degli investimenti nei Paesi più sviluppati, che, non a caso, sono quelli che in Europa fanno parte della Uem. L’euro è stato lo strumento principale di riorganizzazione dell’accumulazione nella fase del capitalismo globale, non in assoluto ma nelle specifiche e particolari condizioni economiche e politiche dell’Europa occidentale. È per queste ragioni che l’ideologia avversaria dominante, cioè l’ideologia della classe dominante, oggi non è quella nazionalista, bensì quella cosmopolita.
Allora, ci si domanderà, perché si assiste alla rinascita del nazionalismo, accompagnata dalla rinascita della xenofobia? In primo luogo, bisogna dire che non tutto ciò che accade è il risultato meccanico e necessario dei piani della classe dominante, anche se certamente è la conseguenza dialettica dei rapporti di produzione dominanti. L’introduzione dell’euro e le politiche europee sono state funzionali a permettere la riduzione del salario e del welfare, ma anche a ridurre quella che Marx chiamava la pletora di imprese, ovvero le imprese e le unità produttive che la stessa accumulazione rende ridondanti e superflue. Così facendo l’euro e le politiche di austerity hanno allargato i divari in termini di crescita e ricchezza tra gli stati europei. Nel contempo, all’interno di essi, hanno prodotto o accentuato, insieme all’aumento della povertà e della disoccupazione di massa, la concorrenza tra indigeni e immigrati per il welfare e il lavoro e lo scollamento tra una parte dell’elettorato e il sistema politico tradizionale bipartitico ed europeista.
Ma, l’euro non colpisce solo il lavoro salariato impiegato direttamente dal capitale (la classe operaia). Esso, in quanto strumento facilitatore della riorganizzazione complessiva dell’accumulazione, colpisce anche altre classi sociali, tra cui alcuni strati intermedi (artigiani, piccoli commercianti, piccoli professionisti) e persino alcuni settori di impresa capitalistica. Infatti, la riorganizzazione e l’accorciamento delle catene di fornitura e subfornitura manifatturiera hanno comportato l’eliminazione di molte imprese piccole, medie e, in certi casi, anche grandi, rendendo difficile la vita alle rimanenti che non riescono a stare sul mercato internazionale. Queste imprese, a differenza delle imprese multinazionali, non traggono beneficio dall’esistenza di una moneta unica a livello europeo, ma ne sono danneggiate. Non è un caso che la Lega, espressione storica della piccola impresa del Nord, abbia una posizione anti-euro, combinata con una posizione xenofoba anti-immigrati. Si tratta di un posizionamento articolato e, a suo modo, abile che tende a mettere insieme settori diversi, piccola impresa e operai, in un nuovo blocco corporativo di destra. Significativamente, dopo vent’anni, la Lega in salsa salviniana ha mandato in soffitta la secessione del Nord, riciclandosi come forza nazionale, a dispetto delle lamentele del vecchio Bossi.
Una dimostrazione ulteriore dei cambiamenti dei rapporti di produzione (la struttura) e di come questi si riflettano sulla politica e sull'ideologia politica (la sovrastruttura). Viene da chiedersi, a questo punto, se la Lega stia usando l’uscita dall’euro come, per circa vent’anni, ha usato la secessione, cioè come specchietto per le allodole e arma di ricatto per ottenere maggiori risorse statali per certi settori imprenditoriali del Nord. Ad ogni modo, la piccola borghesia, come ricordava Marx e come provano la storia (ad esempio quella del fascismo) e i risultati di venti anni di esistenza della Lega, non ha reale capacità di azione autonoma e presto o tardi viene subordinata al movimento oggettivo del capitale, quello vero.
Dunque, il nazionalismo e la xenofobia, così come il successo di partiti cosiddetti populistici o di estrema destra, sono la risposta immediata a una situazione, determinata dal capitale, di aumento dei divari di crescita economica tra Paesi della Uem e della polarizzazione sociale tra le classi di ciascun Paese. Ma il nazionalismo e la xenofobia non sono l’ideologia dell’élite capitalistica, cioè delle imprese multinazionali e transnazionali che rappresentato il vertice dell’accumulazione capitalistica in Europa occidentale e in Italia. Così come il fascismo, inteso per come si è manifestato storicamente in Italia e in Germania, non è la forma di governo o di stato adeguata al capitale in questo momento storico. Anche perché i meccanismi oggettivi dell’euro e i vincoli europei sono tanto più efficaci quanto più appaiono politicamente neutrali e progressisti, in particolar modo rispetto al fascismo, al nazionalismo e alla xenofobia. Nazionalismo e xenofobia sono una conseguenza non voluta e inattesa della riorganizzazione capitalistica gestita dagli apprendisti stregoni europeisti. Essi contrastano con gli interessi del grande capitale europeo, i cui mezzi di comunicazione, dal confindustriale Sole24ore a The Economist, controllato dalle famiglie tipicamente cosmopolite degli Agnelli e dei Rothschild, propagandano una ideologia cosmopolita e europeista, paventando come la peste in questi ultimi tempi il crollo della Ue e della Uem. Tale ideologia cosmopolita e europeista è quella che meglio si combina con il neoliberismo, esprimendo le necessità della mobilità dei fattori produttivi, soprattutto del capitale ma anche della forza lavoro, e affermando la progressività della globalizzazione.
Il blocco sociale alla base di questa ideologia, come ha spiegato bene la femminista americana Nancy Fraser (7), è l’alleanza tra élite capitalistiche e ceti medi “progressisti”, che trova il suo cemento ideologico nella combinazione di neoliberismo e diritti civili riferiti a particolari categorie, viste in termini rigorosamente interclassisti. Tale alleanza sociale sostituisce, a partire soprattutto da Clinton, il blocco sociale keynesiano, disgregatosi negli anni ’80 a seguito della globalizzazione, il quale si basava sull’alleanza tra i settori più organizzati della classe operaia e la grande impresa. L’ideologia cosmopolita è ancora particolarmente forte in Europa occidentale tra l’élite capitalistica, perché si confà alla natura dell’economia europea che presenta una propensione maggiore agli investimenti di capitale all’estero (IDE) e soprattutto all’export di merci, i quali pesano in percentuale sul Pil europeo molto più che su quello statunitense (lo stock di IDE in uscita il 62% contro il 37% e l’export di merci il 35% contro il 9%) (8).
La Uem, coerentemente con l’indirizzo impresso dallo stato-guida tedesco, impronta la sua politica economica al neomercantilismo, cioè al raggiungimento di forti surplus del commercio estero a scapito del mercato e del consumo interno, contratti dalla crisi, dall’austerity del Fiscal compact e dalla deflazione salariale imposta dall’euro. In tale contesto, è particolarmente devastante per quella sinistra che voglia rappresentare il lavoro salariato assorbire pezzi consistenti dell’ideologia dominante cosmopolita. Ciò avviene in parte accettando che la liberazione di certi settori sociali avvenga separatamente dalla modificazione dei rapporti sociali e in parte confondendo la globalizzazione con l’internazionalismo. L’internazionalismo si basa sul riconoscimento e il perseguimento degli interessi collettivi del lavoro salariato contro le divisioni nazionali e il ruolo dello Stato di potere concentrato del capitale. Il cosmopolitismo, invece, è il rovesciamento dialettico in senso borghese dell’internazionalismo. Esso si basa sulla affermazione globale degli interessi individuali dell’élite capitalistica al di sopra dello Stato-nazione di provenienza, mantenendone, però, l’utilizzo e ben salda la natura di classe.
Note
(1) Toni Negri, Chi sono i comunisti. Relazione al convegno C17.
https://www.sinistrainrete.info/sinistra-radicale/9021-toni-negri-chi-sono-i-comunisti.html
(2) Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Eugenio Colorni, Il manifesto di Ventotene. Per una Europa libera e unita, Ventotene, Agosto 1941.
(3) P. Grifone, Il capitale finanziario in Italia, Einaudi, Milano 1972. P. Grifone, Capitalismo di stato e imperialismo fascista, La città del sole, Napoli 2006.
(4) Domenico Moro, Globalizzazione e decadenza industriale, Imprimatur, Reggio Emilia 2015.
(5) Lenin, Sul diritto delle nazioni all’autodecisione.
(6) G. Arrighi, Il lungo XX secolo, Il saggiatore, Milano 1994.
(7) Nancy Fraser, Come il femminismo divenne ancella del capitalismo, The Guardian, 14 ottobre 2013. Nancy Fraser, La fine del neoliberismo progressista, in Sinistra in rete ttps://www.sinistrainrete.info/neoliberismo/9190-nancy-fraser-la-fine-del-neoliberismo-progressista.html
(8) Domenico Moro, op. cit.
Fonte
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