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26/04/2018

La street view di Vivian Maier

di Mauro Baldrati

Un occhio fotografico straordinariamente acuto, geniale, ironico; immagini scattate per strada, con un’attenzione e una velocità che – se il voyeurismo, come diceva Helmut Newton, è parte del dna di ogni fotografo – non indugia nella ricerca del particolare scabroso, o macabro, o violento; ovvero la personalità della fotografa non invade i suoi soggetti: forse li divora, cerca di possederli, ma li ritrae nel loro microcosmo, da una giusta distanza.

Vivian Maier era una signora newyorkese che per tutta la vita ha lavorato come baby sitter e governante. Nel tempo libero usciva in strada con la Rolleiflex al collo e scattava. Scattava, scattava, poi sviluppava. Forse non ha fatto altro. Fino a qualche anno fa non si sapeva nulla di lei, proprio come Emily Dickinson, la poetessa americana alla quale è stata accostata, sia per il personaggio sia per le componenti poetiche dell’opera. Perché scorre poesia nelle immagini in bianco e nero della Maier. Il suo approccio all’immagine, le sue atmosfere hanno un che di poetico. La sua produzione costituisce una formidabile documentazione in bianco e nero sulle persone e i luoghi delle metropoli americane degli anni Cinquanta e Sessanta; anche dei Settanta, quando adottò il colore per alcuni anni. Non è l’unica, certo. Sembra quasi che in quel periodo esistesse una specie di generazione di fotografi documentaristi/cataloghisti, dei maestri del bianco e nero spinti da una curiosità, da una voglia di conoscere il mondo: Robert Frank, col suo fondamentale The Americans (con prefazione di Jack Kerouac); Richard Avedon, che viaggiava per l’America con uno studio fotografico portatile; Cartier Bresson, un altro meraviglioso street viewer, in giro per i luoghi del pianeta; Robert Doisneau, autore di una delle foto più famose del mondo, il bacio, riprodotto su milioni di poster. E Diane Arbus, che cercava persone strane, i cosiddetti freaks, tipi deformi considerati “anormali”, di una anormalità sofferente, inquietante, quasi un riflesso della sua stessa sofferenza.

Ma quei fotografi erano dei professionisti, cioè fotografavano per mestiere, quindi anche con un occhio al reportage commerciale, o di foto artistica (Avedon, soprattutto); alcune delle loro foto sono apparentemente tirate via, addirittura mosse, con contrasti eccessivi (Cartier Bresson); oppure di una definizione stupefacente, effetto della lastra a grande formato (ancora Avedon). Anche Vivian era una professionista, anzi, una super professionista: le sue stampe coi contrasti morbidi, filtrati dalle ottiche Zeiss montate sulla Rollei, sono perfette dal punto di vista tecnico. Si leggono tutte le scale di grigi, i neri non sono mai chiusi, i bianchi smaglianti ma mai abbaglianti; e l’inquadratura, quale perfezione delle forme, degli spazi, del rapporto soggetto/ambiente. Prediligeva le figure umane, uomini, donne, bambini, vecchi, in gran parte di estrazione popolare, fermati sulla pellicola mentre stanno compiendo un gesto, o guardano in una direzione. Sono quasi sempre ambientate in strada, in cortili, in quartieri fatiscenti, in contesti strani, talvolta inspiegabili. Le foto sembrano parlare, e ci pongono delle domande: cosa stava facendo quella donna? Dove si trova, e perché? E quel ragazzo cosa starà pensando? Era triste, preoccupato? Fotografava anche palazzi, visioni dall’alto delle grandi strade che solcavano la città, già col traffico caotico di auto dalle forme rotondeggianti, massicce, come pesci che scorrono in un fiume di asfalto racchiuso dagli inconfondibili grattacieli grigi. Da alcune di queste foto si stanno ricavando poster, la metropoli in bianco e nero di Chandler, del primo Ellroy, che arrederanno salotti o studi. Le immagini sono curatissime, studiate da una fotografa attenta ai dettagli, alla luce. Non c’è una deformazione prospettica che non sia necessaria, il controllo del contrasto è solido.

Anche l’approccio coi suoi soggetti sembra meditato. Si sente il rispetto che la lega ai suoi personaggi. Non sono foto “lievi”; la ricerca è forte, i soggetti pure; ma la fotografa preferisce tenere la distanza minima (di sicurezza?), non invadere lo spazio dell’altro. Non è, per esempio, Diane Arbus, che ha bisogno della vicinanza, impone il rapporto diretto; o il grande Weegee, un fotoreporter d’assalto, un predatore che predilige il lampo del flash al magnesio, soggetti disperati, pazzi o morti congelati nell’abisso della notte. Vivian non cerca la posa a tutti i costi. La preferisce, ma non rifiuta la foto rubata, come un colpo d’occhio mentre si è in movimento: un clochard disfatto che divora un panino; un ragazzone che dorme a bordo di una decappottabile anni ’50, con una “favolosa” auto probabilmente color gelato alle sue spalle; padri e figli in posizioni strambe, signore col cappellino, un clown triste, un uomo che sembra morto completamente vestito in spiaggia. C’è anche ironia, come un divertimento raffinato nel suo sistema fotografico. Non c’è l’umorismo di un Doisneau, o la smorfia di certi scatti di Cartier Bresson. La fotografa sembra sorridere, quando intuisce, in una frazione di secondo, che di fronte a lei si è formata una foto perfetta, strana, curiosa, e durerà poco, pochissimo, il tempo di un battito di ciglia, il tempo di uno scatto dell’otturatore. Ma non si deve confonderla con il sentimentalismo o il poetese politicamente corretto stucchevole. Anche lei, come ogni fotografo (Helmut Newton dicet), ha un lato feroce, predatorio; è attratta dalla deformità, anche se non con l’ossessività della Arbus. Come i fotografi di guerra, se uno dei bambini di cui si occupava viene investito per prima cosa lo fotografa, poi lo soccorre.

Quindi Vivian Maier è stata una grande professionista della fotografia, ma non di mestiere. Di voglia forse, o di necessità. O di vocazione. Proprio come Emily Dickinson. O come Vincent Van Gogh, che non ha mai venduto un quadro in tutta la sua vita (forse uno, ma non ci sono prove certe). La sua opera è stata scoperta nel 2007 a Chicago da un signore di nome John Maloof, che comprò una quantità di oggetti e scatole provenienti da un’asta. Appartenevano a una donna di 81 anni, di nome Vivian Mayer, ridotta in miseria che non riusciva a pagare l’affitto. C’erano migliaia di pellicole, alcune sviluppate e altre ancora da sviluppare. Si è ritrovato tra le mani un tesoro immenso, una documentazione foto-artistica che ha dell’incredibile.

Ma se Maloof non avesse comprato quelle scatole, e non si fosse impegnato a fondo per diffonderne l’opera (ha anche girato un film, finding Vivian Maier) avremmo mai conosciuto le foto di Vivian Maier?

Possibile che esistano dei capolavori che nessuno conoscerà, che scompariranno nel nulla e nell’oblio?


A Bologna, Palazzo Pallvicini, fino al 27 maggio.

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