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28/04/2018

Il 25 aprile che ci vuole, ogni giorno


In piazza. Questa mattina. Il mio pippone del venticinque aprile.

Commemorare la Resistenza, nel 2018, senza cadere nella retorica celebrativa è piuttosto difficile.

Intendiamoci, non c’è nulla di male nella retorica celebrativa, ma quando ho chiesto al nostro Presidente ANPI di avere l’onere, per quest’anno, di tenere il discorso ufficiale in occasione del 25 aprile, l’ho fatto con l’obiettivo di non salire qua sopra solo per recitare l’agonia dei buoni sentimenti e dei valori astratti che hanno ispirato i nostri padri costituenti eccetera eccetera.

Non vi parlerò neppure dei fascisti cattivi con le svastiche tatuate, il culto del corpo e la scarpe alla moda.

Certo, faremmo bene a fare attenzione a non assuefarci alle dosi neppure troppo omeopatiche di aggressioni, intimidazioni e provocazioni diluite ormai nella quotidianità delle nostre tranquille esistenze.

Di questi coglioni che inneggiano al duce, all’autarchia ed al becero nazionalismo ce ne sono, ce ne saranno ancora e, soprattutto, ce ne sono sempre stati.

E sono anche facili da riconoscere.
Quando si vestono da fascisti.
Quando parlano da fascisti.
Quando ci raccontano come si campasse alla grande durante il ventennio.

Con i figli al fronte a fare la guerra, il cibo razionato, le bombe sulle città e nemmeno un podio dal quale potersene lamentare.

Che bello che era il fascismo, ci spiegano oggi.

Con i treni che arrivavano in orario, ma con i vagoni piombati dall’esterno.

Ma anche questo, sono certo, ve lo siete già sentito dire e se c’è una cosa che vorrei evitare è contribuire a rendere il ricordo dei valori fondamentali una litania che stanca chi è confuso e assopisce chi è distratto.

Dunque che senso può avere, nel 2018, parlare di fascismo?

Vi proporrei di parlare del piccolo fascista che è in noi, nelle nostre abitudini, nella nostra ignavia, nel nostro essere distratti e nella nostra pancia.

In tutti i piccoli compromessi che accettiamo sul lavoro, a scuola e facendo politica.

Quando ci voltiamo dall’altra parte perché un problema non ci riguarda.

Quando ci lamentiamo dello sciopero degli autobus perché non siamo conducenti ma passeggeri.

Quando neghiamo un diritto perché contrasta con le nostre convinzioni religiose.

Quando decidiamo con tanto di carta bollata che un barbone è meglio che dorma nelle strade di periferia e lasci in pace il salotto del centro.

Quando puniamo uno studente perché ho osato criticare il sistema educativo mentre frigge patatine in un fastfood durante l’orario scolastico.

Quando stringiamo accordi con regimi sanguinari per diminuire gli sbarchi sulle nostre coste, fregandocene delle condanne delle organizzazioni internazionali e vantandocene, addirittura, in campagna elettorale.

Mi è capitato, di recente, di leggere il romanzo “Ognuno muore solo”, dello scrittore tedesco sopravvissuto al nazismo Hans Fallada: era già abbastanza vecchio, malato, rinchiuso in manicomio e dedito alle droghe. E così se l’è cavata.

Ma poi, finita la guerra, caduto il regime, gli hanno consegnato le carte della Gestapo e gli hanno chiesto di narrare la storia di un gesto isolato di ribellione che vi era raccontato, insieme alle vite di un pugno di famiglie, di persone normali.

Una coppia di coniugi, Anna e Otto Quangel, dopo avere ricevuto la notizia della morte del figlio al fronte, si svegliano improvvisamente dal torpore del sostegno incondizionato al fuhrer, comprendono l’assurdità del nazismo e della guerra e cominciano a disseminare nei caseggiati di una Berlino ancora viva e pulsante una serie di cartoline sulle quali sono vergate frasi di ribellione.

Verranno ovviamente catturati ed uccisi, nonostante l’approssimarsi della fine del conflitto e del crepuscolo del regime nazista.

Moriranno ma ancora prima vivranno accettando il rischio concreto di morire.

E soprattutto decideranno che non ha senso vivere senza compiere quegli atti eroici e al tempo stesso semplici, pazzeschi e al tempo stesso doverosi.

Ma la cosa che più colpisce di tutta la storia è l’assoluta inutilità del gesto.

Tanto eroico e rischioso quanto vano.

Quasi nessuno raccoglie le cartoline.

Non appena i bravi cittadini scoprono le frasi compromettenti che vi sono incise vengono colti dal panico: sarà più rischioso ignorarle oppure correre a consegnarle all’autorità?

E allora ci chiedo: e noi?

Siamo come i passanti berlinesi?

Quando sentiamo qualcuno alzare la voce per rivendicare un diritto, cosa facciamo? Cerchiamo una comoda via di fuga?

Cerchiamo una soluzione onorevole per sentirci in pace con la coscienza?

Cerchiamo di capire se quel diritto potrà mai configgere con qualche nostro interesse?

Siccome erano domande retoriche, risponderò io per voi.

Si, la maggior parte delle volte, tutti noi, sceglieremo di lasciare per terra le cartoline e, quando andrà bene, cambieremo strada sperando di non essere stati visti, di non esserci compromessi.

Ed è proprio la somma di questi nostri comportamenti individuali che nasconde le aggressioni fasciste, sempre più spesso ispirate da una violenza misogina o omofoba, in un brodo di indifferenza ed egoismo: sono azioni visibili e riconoscibili ma al tempo stesso offuscate dall’abitudine a lasciar correre e dalla rassegnazione di doverle accettare.

Per questo, tuttavia, sono ancora più pericolose.

E per questo, l’unica strada che l’ANPI e le nostre coscienze possono intraprendere è quella di non limitarci alla testimonianza. Occorre agire.

È ovvio: non viviamo nella Berlino del 1940.

Ma nemmeno i berlinesi del 1930 vivevano sotto il regime nazista. L’hanno visto arrivare, l’hanno annusato e l’hanno scelto. Hanno sentito l’odore della violenza, il rumore dei cori che esaltavano la patria, la razza, la stirpe e l’uomo forte.

Un altro splendido libro che vorrei fosse letto nelle scuole si chiama “Come si diventa nazisti” e l’ha scritto nel 1965 un tale, William Sheridan Allen, uno storico americano che ha studiato e insegnato tra gli Stati Uniti e la Germania: ci racconta la storia di una tranquilla cittadina di nome Nordheim, nel land dell’Hannover, nel periodo di tempo, dal 1930 al 1935, in cui muore la Repubblica di Weimar e si afferma il nazismo.

L’autore ci spiega in poche efficaci frasi il senso di cosa fosse successo:
“non c’era stato un colpo di stato nazista; ci fu, invece, una serie di azioni quasi legali, lungo un periodo di almeno sei mesi, nessuna delle quali costituì di per sé stessa una rivoluzione, ma il complesso delle quali trasformò la Germania da una repubblica a una dittatura. Il problema era dove tracciare la linea di divisione: ma allorché la linea poté essere tracciata con chiarezza, la rivoluzione era un fatto compiuto, i potenziali organi di resistenza erano stati distrutti uno per uno, ed una resistenza organizzata non era più possibile”.

E allora lo ribadisco. Non viviamo nella Germania degli anni '30 o '40.

Ma nemmeno, ahimè, nella Germania o nell’Italia degli anni '50.

Quel nazismo e quel fascismo ce li siamo lasciati alle spalle.

Forse. Insomma, speriamo di esserceli lasciati alle spalle.

Quel fascismo e quel nazismo li sappiamo ancora riconoscere. Sappiamo già come indignarci, cosa dire, quali mozioni votare, quali bandiere sventolare e in quali piazze darci appuntamento con la nostra indignazione, le nostre mozioni e le nostre bandiere.

Intendiamoci: è necessario continuare a farlo. Ad ogni minima avvisaglia e coinvolgendo sempre più gente possibile, finché non finiremo per manifestare tutti insieme.

Ma siccome siamo nel 2018 e l’anno prossimo, qualunque sia il governo in carica, la squadra che ha vinto lo scudetto e il colore alla moda nelle vetrine, sarà il 2019, vi invito a riflettere su quale sia il fascismo da combattere.

Quello che alza il braccio teso o quello che nega i diritti? Quello fuori da noi o quello che dentro di noi sale dalla pancia alla testa?

A me fa paura il secondo. Perché si nutre delle nostre abitudini e riposa sui nostri animi addormentati e disabituati all’indignazione, assuefatti al quieto vivere e disillusi sulla possibilità di rimettere in discussione le diseguaglianze, le ingiustizie e le miserie del mondo.

E per questo, lo ribadisco, l’unica strada che l’ANPI e le nostre coscienze possono intraprendere è quella di non limitarci alla testimonianza. Occorre agire.

Essere nelle piazze e nelle strade sempre. Non per leggere comunicati ma per mettere i nostri corpi davanti a quelli dei fascisti e non solo quando indossano la camicia nera e marciano al passo dell’oca.

Essere nelle piazze e nelle strade sempre. Non a centinaia di chilometri e settimane di distanza ma nell’immediatezza dei fatti. Anche se può dare fastidio. Anche se qualcuno storcerà il naso.

Essere nelle piazze e nelle strade sempre. Non solo di fianco alle fasce tricolori ma anche accanto alle ragazze ed ai ragazzi dei centri sociali e dei collettivi universitari.

Essere nelle piazze e nelle strade sempre. A ricordare ai razzisti che le razze non esistono ed alla classe dirigente di questo paese che i confini producono solo morte.

W la Resistenza.

di Mattia Zucchini

Grazie

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