Trattare gli episodi di violenza nei confronti degli insegnanti con toni moralistici, pietistici o, peggio, invocando la perdita di generici orizzonti valoriali, appare limitante e, in alcuni casi, addirittura fuorviante.
Studenti, insegnanti e lavoratori sono sottoposti da decenni a una vera e propria scuola di ferocia e di darwinismo sociale.
“La politica è manovrata da un’ideologia supercompetitiva altamente diffusa che reca il messaggio secondo il quale se si vuole sopravvivere nella società è necessario ridurre i rapporti sociali a forme di guerriglia sociale. Sono troppi i giovani oggi che imparano troppo presto che il loro destino dipende da una responsabilità individuale, indipendentemente da relazioni strutturali più ampie.” Così scriveva nel 2015 Henry Giroux, studioso americano e padre della pedagogia critica, attaccando il modello di società perseguito dal neoliberalismo autoritario.
Gli effetti dell’ipercompetitività aggressiva e sempre più violenta sono sotto gli occhi di tutti e stanno aumentando vistosamente anche nel mondo della scuola.
Le reiterate violenze sugli insegnanti da parte di genitori e studenti, registrate dalla cronaca negli ultimi anni, sono la manifestazione più evidente dell’etica della sopraffazione, propria di un modello di società fondato sulla logica dell’homo homini lupus. La cosiddetta “comunità educante” si è trasformata, al di là delle tanto sbandierate politiche dell’inclusione, in luogo di atomizzazione sociale e di esclusione. Tutto ciò è stato reso possibile per mezzo del setaccio dell’insegnamento/apprendimento per competenze, basato sul paradigma della competitività.
Gli studenti, a partire dalla scuola primaria fino ad arrivare alla secondaria di secondo grado, sono costantemente sottoposti a un tour de force meccanico e omologante di misurazione e quantificazione delle competenze. In realtà questa è soltanto la faccia di un prisma, distinguibile ma non separabile dal sistema complessivo. Parlare di sistema complessivo significa far riferimento a un’architettura sociale costruita su vari livelli di competizione integrata, sull’individualismo e sulla disintegrazione di ogni forma di solidarietà.
Solo per fare un esempio, qualche mese fa abbiamo letto notizie riguardanti istituti scolastici che vantavano, nelle loro presentazioni, un’utenza “scremata”, quella dei figli della buona borghesia italiana, ma che, soprattutto, ostentavano un’utenza priva di soggetti indesiderati. Orgogliosamente, il liceo romano Quirino Visconti si offriva sul mercato con questi termini: “Le famiglie che scelgono il liceo sono di estrazione medio-alta borghese, per lo più residenti in centro, ma anche provenienti da quartieri diversi, richiamati dalla fama del liceo. Tutti, tranne un paio, sono di nazionalità italiana e nessuno è diversamente abile. Tutto ciò favorisce il processo di apprendimento”.
Si potrebbe pensare che la selezione dell’utenza operata da alcuni istituti costituisca un’eccezione nella scuola dell’inclusività. In realtà lo stesso vessillo dell’inclusività, tanto sbandierato in tutte le sue forme, si tratti di BES, DSA o disabilità, è semplice falsa coscienza. Nel documento del MIUR sul “Supporto all’inclusione scolastica” si legge: “I principi che sono alla base del nostro modello di integrazione scolastica – assunto a punto di riferimento per le politiche di inclusione in Europa e non solo – hanno contribuito a fare del sistema di istruzione italiano un luogo di conoscenza, sviluppo e socializzazione per tutti, sottolineandone gli aspetti inclusivi piuttosto che quelli selettivi”. Al di là del proclamato spirito inclusivo, l’attuale forma assunta dall’inclusione si traduce da un lato in una forma di parossismo classificatorio, utile alla contabilizzazione, alla gerarchizzazione delle competenze – si certifica ciò che uno può e sa fare e cosa da lui si può spremere, anche se disabile – e dall’altro in uno strumento di controllo e di sorveglianza di massa da parte dell’attuale società autoritaria di mercato.
Nella legge 107 del 2015, l’ultima e la più radicale delle controriforme della scuola, lo studente viene tracciato e inserito in una filiera che metterà a servizio del mercato una serie di informazioni utili al suo sfruttamento futuro come forza lavoro potenziale: “Tali insegnamenti […] sono parte del percorso dello studente e sono inseriti nel curriculum dello studente, che ne individua il profilo associandolo a un’identità digitale e raccoglie tutti i dati utili anche ai fini dell’orientamento e dell’accesso al mondo del lavoro, relativi al percorso degli studi, alle competenze acquisite.”
In questa dimensione parcellizzata e segmentata, ciascun soggetto è isolato ed escluso rispetto all’altro e la stessa relazione umana tra docente e studente, condizione imprescindibile di ogni azione educativa, viene a mancare. L’insegnante diviene un mero certificatore con il compito di valutare livelli di performance, pretese “competenze civiche” (vedi il caso degli studenti sanzionati per aver criticato l’alternanza scuola – lavoro) e assume il ruolo di fiancheggiatore delle imprese nella valutazione degli studenti.
Questa scuola della competizione alimenta forme di aggressività e di paura dell’esclusione. Ecco che le valutazioni negative, le sanzioni disciplinari, i semplici rimproveri, possono essere percepiti da studenti e famiglie – peraltro sempre più invadenti – come una sorta di anticamera dell’esclusione sociale. Nella società della competizione generalizzata e globale, dell’individualismo aberrante e della lotta di tutti contro tutti, non è ammessa sconfitta. Questa, infatti, si traduce nel fallimento e nell’emarginazione. Da tale senso di sconfitta e di frustrazione possono scaturire rabbia e violenza nei confronti della funzione valutativa svolta dal docente nell’ambito del sistema scolastico neoliberista.
Tutto ciò è fortemente corroborato da un modello sociale che criminalizza la solidarietà, che implementa violenza e ferocia contro gli ultimi e che, nel gioco al massacro generalizzato prodotto da una concorrenza onnivora, emargina e colpevolizza gli sconfitti.
Quanto sta accadendo in Italia rappresenta una tendenza presente in altri paesi europei ormai da anni. In Francia, da molto tempo, a causa di insulti, minacce e aggressioni, gli insegnanti sono stati costretti a ricorrere a una polizza assicurativa speciale per tutelarsi in caso di violenze subite ad opera di genitori e studenti.
L’insegnante odierno ha un ruolo specifico: se un tempo accompagnava i ragazzi nel processo di crescita ed emancipazione culturale in senso lato, oggi è diventato un mero strumento della società ipercompetitiva e deve limitarsi ad applicare le regole della competizione, a misurare e a valutare i livelli di performance. D’altronde gli stessi studenti hanno la chiara percezione dello svilimento della professione insegnante che si traduce in crisi dell’autorevolezza del docente.
La scuola è dunque un osservatorio privilegiato e un laboratorio formativo nel quale si sperimentano nuove forme di ingegneria e di gerarchizzazione sociale, ispirate a una serie di “valori”, tutti ovviamente funzionali al mercato.
La ferocia alla quale si abbandonano spesso genitori e studenti non può essere archiviata come mero nichilismo. Esiste oggi un solo e unico valore, quello del profitto, con la sua ferocia, con la sua violenza, con la sua criminalizzazione di ogni forma di solidarietà.
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