Nella storia d’Italia la data del 18 aprile ha rappresentato per ben due volte l’occasione per segnare una svolta storica: nella prima occasione, quella del 1948 della quale oggi tutti ricordano l’anniversario, si svolsero le elezioni per la Prima Legislatura Repubblicana con il successo della Democrazia Cristiana.
In un’occasione successiva, quella del 1993, le urne furono aperte per un referendum che (tra altri convocati in quell’occasione) interessava la legge elettorale del Senato.
Di seguito, considerata l’importanza dell’affermazione ottenuta dal quesito, si aprì una stagione di profonda riforma proprio in campo elettorale.
Si provocò in allora causando un vero e proprio riallineamento dell’intero sistema politico considerato che l’esito referendario s’inserì, a quel tempo, in una fase di grandi trasformazioni: la caduta del muro di Berlino, Tangentopoli, la stipulazione del trattato di Maastricht.
In Italia si stava verificando una fase di forte scollamento tra la società civile e il sistema dei partiti.
Una fase di scollamento che si era mostrata evidente nell’occasione del referendum sulla riduzione a una sola delle preferenze esprimibili nell’elezione per la Camera dei Deputati, svoltosi nel Giugno del 1991 e osteggiato da parte della DC, dal PSI e dalla Lega Nord che, in quel momento, stava accelerando fortemente il suo processo di crescita.
Il referendum del 1993 passò a grande maggioranza e si aprì così la strada a quella stagione che è stata definita come delle “transizione italiana”.
“Tangentopoli” e “caduta del Muro di Berlino” rappresentarono i fattori decisivi perché ogni modello di forma – partito vigente fosse travolto, assieme ai resti del meccanismo dello “spoil system”.
Nel 1993 (il 18 Aprile) gli elettori furono chiamati a indicare, attraverso un referendum volto a eliminare la clausola del 65% nel sistema elettorale per il Senato, la loro preferenza per un sistema maggioritario o proporzionale.
La vittoria degli abrogazionisti impresse una svolta in senso maggioritario al dibattito e fu letta come una “chiara” indicazione proveniente dalla base del Paese a favore dell’abbandono del sistema proporzionale.
Non era propriamente così e gli esiti risultarono fortemente contraddittori rispetto anche agli stessi obiettivi dichiarati dai proponenti.
L’esito complessivo di quella vicenda, con l’evidente crisi della democrazia liberale classica che abbiamo sotto gli occhi, credo possa, a distanza di tanti anni, rendere giustizia al merito di chi, pur in netta minoranza, seppe in allora battersi contro quella che appariva come una vera e propria illusoria furia iconoclasta attraverso la quale in quel momento, si scambiò il maggioritario come la panacea di tutti i mali che affliggevano il nostro sistema politico.
In quel modo si cercò di abbattere alcuni dei pilastri della nostra democrazia sul terreno della rappresentatività politica e della centralità del Parlamento mortificando la Costituzione Repubblicana.
Si era così aperta la strada a una delle fasi più mortificanti della nostra vita democratica, come quella che stiamo vivendo ormai da molti anni.
Così come va sempre tenuto in conto l’operato di coloro che, isolati e ignorati, in tempi successivi seppero combattere la battaglia contro formule elettorali chiaramente incostituzionali chiedendo e perorando il giudizio dell’Alta Corte che in ben due (storiche) occasioni ha bocciato l’operato del Parlamento e del Governo.
Si trattò di vere e proprie vittorie della democrazia da non dimenticare quando si analizzano le vicende di questi anni tormentati, mentre quella del 18 aprile 1993 segnò una vera e propria battuta d’arresto per lo sviluppo democratico del nostro Paese.
Procediamo però per ordine compiendo, come si scriveva una volta nei romanzi d’appendice, un passo indietro.
Alle elezioni del 1976 si era verificato un altissimo livello di polarizzazione, mentre a partire dalle elezioni del 1979 si avviò un’inversione di tendenza che evidenziava una progressiva polverizzazione del sistema politico.
A un calo progressivo dei partiti storici corrispose l’entrata in Parlamento di formazioni politiche alternative: Radicali, PdUP, Democrazia Proletaria, Verdi, Leghe il cui accesso era garantito da un sistema elettorale il cui principio di specularità rendeva sempre più difficile la formazione di maggioranze, capaci di convergere su di un programma e, quindi, garantire anche la governabilità.
Le istanze favorevoli al maggioritario s’innestarono così su questo filone.
Una curiosità da ricordare è come, in sede di Assemblea Costituente, affrontando il tema del referendum si discusse anche delle materie che dovevano restarne escluse.
In quell’occasione furono elencate le leggi tributarie, quelle di bilancio, di amnistia, indulto, di autorizzazione a ratificare i trattati internazionali.
In quel lontano 16 ottobre 1947, tuttavia fu presentata da alcuni deputati comunisti, prima firmataria Maria Maddalena Rossi, una proposta finalizzata a includere fra queste leggi, anche quelle elettorali.
Contro il parere di Meuccio Ruini, presidente della Commissione per la Costituzione, l’iniziativa fu approvata dalla maggioranza dei costituenti.
Nonostante questo, nel testo costituzionale a tutti noto, le leggi elettorali non figurano tra quelle escluse da referendum.
Quasi nessuno richiama il fatto che solo Costantino Mortati nelle sue Istituzioni di Diritto Pubblico ricorda come “La Costituente aveva votato un emendamento che escludeva dal referendum anche le leggi elettorali, ma tale aggiunta, per errore omissivo, non venne inserita nel testo approvato con la votazione finale, sicché non è entrata in vigore”.
Così per un errore di quarantotto anni prima, il 18 aprile 1993, per volontà popolare il principio maggioritario entrò formalmente nel gioco istituzionale.
Abbiamo visto come il referendum accelerò l’iter della riforma e fu così varata la legge, denominata “Mattarellum” dal cognome del suo relatore Mattarella del PPI oggi Presidente della Repubblica: un appellativo, quello di “Mattarellum” inventato dal politologo Sartori, che cercava di indicare anche alcune “mattarelle” contenute nella legge, previsioni un po’ balzane come quello del cosiddetto “scorporo” tendente a favorire le liste minori nella parte proporzionale.
Si introduceva difatti sia per la Camera, sia per il Senato un sistema misto: maggioritario secco per il 75% dei seggi da assegnare e proporzionale per il 25%, con la legge 4 agosto 1993, n.276 e legge 4 agosto 1993, n.277.
La “ratio” delle legge era quella di superare la frammentazione del sistema dei partiti verso la composizione di un sistema politico bipolare, senza al tempo stesso recidere la tradizione pluralistica, elemento distintivo del sistema politico italiano.
Nel dibattito svoltosi alla Camera e al Senato l’abbandono del sistema proporzionale era apparso, da subito, un dato pressoché acquisito, ma non vi fu molta convinzione nel sostenere il passaggio al maggioritario.
Il confronto tendeva ancora a misurarsi su doppio turno e turno unico, ma apparve anche la prospettiva del maggioritario “secco”.
All’interno della Commissione affari costituzionali della Camera i commissari del PDS, allontanandosi dalla loro tradizionale posizione favorevole al doppio turno esordirono con una proposta di “proporzionale personalizzato alla tedesca”, corretta stavolta da un premio di maggioranza per la lista più votata.
La DC restò invece legata alla proposta già avanzata da Mattarella all’interno della Commissione bicamerale per le riforme elettorali, già insediata nel settembre 1992 e che fin dal 10 febbraio 1993 aveva approvato alcuni criteri direttivi per la riforma, con il voto favorevole di DC, PDS, PSI, PSDI e PRI.
Il progetto democristiano prevedeva “Doppio voto su un’unica scheda per l’attribuzione del 60% di seggi a maggioranza entro collegi uninominali e del restante 40% proporzionalmente su base regionale o sub regionale; scorporo del margine riportato dai vincitori nei collegi a carico delle liste collegate; recupero dei resti nel collegio unico nazionale, riservato ai partiti che avessero superato una soglia nazionale del 3%”.
Fu l’esito del referendum a porre la questione della riduzione della quota di seggi destinata all’assegnazione proporzionale.
La linea monoturnista fu accolta, di fatto, senza un reale dibattito all’interno della commissione e l’approvazione del maggioritario secco fu realizzata successivamente anche da Camera e Senato.
Più delicato apparve, invece, l’aspetto relativo alla quota proporzionale, perché appariva evidente a tutti che dalla scelta dei meccanismi di funzionamento di questa parte della formula elettorale sarebbe dipeso il livello di frammentazione prodotto dal sistema.
Alla fine, come abbiamo visto, l’accordo fu trovato alla quota del 25%, mantenendo il sistema dello scorporo e riducendo al 4% la soglia di sbarramento per l’accesso alla ripartizione dei resti per i partiti nelle circoscrizioni (dopo una proposta iniziale del 5%).
Mentre per la Camera dei Deputati fu scelto il voto attraverso la doppia scheda, per il Senato l’opzione fu per la scheda unica e il recupero proporzionale (anche in questo caso fissato al 25%) sarebbe avvenuto attraverso il recupero dei migliori candidati battuti nei collegi uninominali.
In realtà la modifica della legge elettorale per le elezioni politiche fu preceduta dalla modifica delle legge elettorale destinata all’elezione dei sindaci e dei presidenti di provincia, introducendo per la prima volta nella storia d’Italia l’elezione diretta per gli organi monocratici.
Nello stesso periodo era stata modificata anche la legge elettorale per l’elezione degli Enti Locali (i quali attraverso la legge 142/1991 avevano ottenuto l’autonomia statutaria).
Nei comuni fino a 15.000 abitanti (circa 7.500 su 8.100) è utilizzato, fin dal 1993 (legge 81/93) un sistema elettorale maggioritario grazie al quale risulta automaticamente eletto Sindaco il candidato che ottiene più voti.
Nei Comuni al di sopra dei quindicimila abitanti il sistema è pure maggioritario, ma a doppio turno eventuale.
Gli elettori dispongono di due voti: uno per il Sindaco, uno per il Consiglio (con una preferenza), che possono usare in maniera disgiunta (analogo sistema è usato per l’elezione del Presidente della Provincia, cui si allineano anche tutte le altre norme citate in seguito salvo, appunto, questa del voto disgiunto: per il Presidente della Provincia è necessario votare una lista facente parte della stessa coalizione che presenta, appunto, il candidato).
Al primo turno è eletto immediatamente Sindaco (o Presidente di Provincia) il candidato che ottiene più del 50% dei voti.
Altrimenti è necessario un secondo turno, di ballottaggio, tra i due candidati più votati.
Dal 1994 al 2005 si è, dunque, votato in Italia per le elezioni legislative generali con il sistema misto “maggioritario al 75% e proporzionale al 25%” già descritto: un sistema notevolmente complesso al riguardo del quale si possono trarre alcune indicazioni di bilancio, dopo che – appunto – si erano svolte con quel sistema tre tornate elettorali: 1994, 1996, 2001.
La prima valutazione riguarda il fatto che questo sistema elettorale non aveva, in alcun modo ridotto il numero dei partiti che, anzi, grazie al potere di ricatto di cui disponevano per far vincere/perdere i candidati nei collegi uninominali (si noti, non con le liste proporzionali che avrebbero dovuto superare lo sbarramento del 4% a dimensione nazionale) si facevano consegnare un numero significativo di seggi nei collegi ritenuti “sicuri”.
In secondo luogo il sistema ha effettivamente incoraggiato la formazione di coalizioni e la competizione bipolare.
Tuttavia, ancora nelle elezioni del 2001 addirittura cinque milioni di elettori (un settimo dell’elettorato complessivo) scelsero partiti e liste non coalizzate a dimostrazione di una sorta di “irriducibilità” nella complessità di espressione dell’elettorato in una misura comunque significativa.
Inoltre le coalizioni elettorali, politiche e di governo sono state conflittuali e non hanno contenuto l’instabilità di governo.
Al terzo punto si è notato come effettivamente sia stata prodotta l’alternanza di governo, ma questo fatto può difficilmente essere attribuito semplicemente al “sistema”, poiché l’alternanza si ha anche in altre sistemi politici delle nuove democrazie mediterranee come Spagna, Grecia, Portogallo, che usano sistemi elettorali proporzionali.
Quarto, e ultimo punto, i collegi uninominali, nei quali troppo spesso le coalizioni avevano “paracadutato” i loro candidati, non hanno prodotto, tranne in pochi casi eccezionali, un miglioramento nei rapporti tra elettori ed eletti.
Tra molte critiche e ipotesi di intervento si arrivò fino al 2005, quando, sul pretesto di una riforma volta ad eliminare il principio dello “scorporo” all’interno del computo dei voti per l’attribuzione dei seggi nella parte proporzionale, i partiti della maggioranza di centro-destra avviarono una proposta di totale rivisitazione del sistema elettorale che introduceva un sistema proporzionale “corretto”.
La nuova legge (n.270 del 21 Dicembre 2005) prevedeva, innanzitutto, una molteplicità di “soglie di sbarramento” applicate secondo percentuali diverse sia ai singoli partiti sia alle coalizioni, condizionando a questo modo lo svolgimento delle elezioni in termini di ripartizione tra voti e seggi.
In secondo luogo era introdotto un “premio di maggioranza”, distribuito alla Camera a livello nazionale e al Senato a livello regionale, presentando così il rischio di maggioranza diverse nelle due assemblee.
Infine, per la prima volta dal dopoguerra, è stato abolito il voto di preferenza, con l’introduzione delle cosiddette “liste bloccate”.
Questa legge è risultata poi bocciata completamente dalla Corte Costituzionale con sentenza n.1/2014, sostituita dal marchingegno “Italikum” , legge approvata a colpi di voti di fiducia e poi ancora bocciata dalla stessa Corte e – di conseguenza – sostituita dalla legge con la quale si è votato lo scorso 4 marzo 2108 con gli esiti che tutti conosciamo.
Un vero e proprio “tourbillon” all’interno del quale si sono smarrite le coordinate di fondo di una cultura politica in materia elettorale che pure dovrebbe presiedere alla capacità di legiferare su questa delicata materia.
In conclusione di questa sommaria ricostruzione mi sarà permesso allora ricordare alcuni dei “fondamentali” che è necessario esprimere affrontando questa materia sul piano della cultura politica.
Un elemento di premessa, in questa senso: non è vero che ai cittadini non interessi il sistema elettorale, anzi. Così come non era vero che le questioni costituzionali fossero ignorate dalla gran parte dei cittadini. A questo proposito l’esito del referendum del 4 dicembre 2016 deve essere sempre ricordato come emblematico.
In passato, proprio attorno al nodo del sistema elettorale, la sinistra costruì una delle sue più grandi vittorie, quella contro la legge-truffa del 1953: un risultato che diede, a quel tempo, una vera e propria svolta alla storia dell’intero sistema politico.
Tornando ai giorni nostri c’è da ricordare come la priorità del sistema sia rappresentata, in tutta evidenza, da una fortissima crisi di rappresentatività complessiva.
Crisi di rappresentatività dimostrata anche dalla crescita dell’astensionismo anche nell’occasione delle elezioni legislative generali. Tra il 2013 e il 2018 abbiamo verificato una crescita del “non voto” superiore al milione di unità.
La realtà della situazione italiana è quella di una confusione diffusa, di una condizione materiale caratterizzata dalla prospettiva di risvolti molto pericolosi per la nostra democrazia.
Questo stato di cose è frutto del decadimento del sistema politico italiano in un quadro di degrado economico, crescita delle disuguaglianze, personalizzazione della politica, idea stralunata del maggioritario che si cercherà di reintrodurre sotto forma del premio di maggioranza: marchingegno già bocciato nettamente in sede di Corte Costituzionale.
Non è neppur vero che occorre occuparsi esclusivamente di temi concreti come quello della crisi, lasciando agli specialisti quelli della cosiddetta “politica fine”.
Il nodo della rappresentanza politica e del rapporto tra questa e la governabilità è assolutamente cruciale per qualsivoglia tipo di politica pubblica si intenda portare avanti
La questione è quella del tipo di cultura politica che viene praticata.
L’esperienza di questi anni, tra sistema elettorale misto proporzionale e maggioritario (1994, 1996, 2001) e proporzionale con sbarramento e liste bloccate (2006, 2008, 2013: sistema poi bocciato dalla Corte Costituzionale) e adesso della formula mista (ancora con liste bloccate per il 75% e il 25% di collegi uninominali) usata per le elezioni del 2018, è stata molto significativa e non vale la pena di illustrarla più di tanto: il sistema basato sulle coalizioni ha fornito pessimi esempi, sia sul piano della qualità del personale politico scelto, anche attraverso i collegi uninominali e non soltanto attraverso le liste bloccate e la tenuta delle coalizioni, in assenza di una comune progettualità, si è rivelata assolutamente deficitaria.
I sistemi elettorali in questione hanno prodotto un sistema politico che ha svilito la funzione di fondo di una Repubblica parlamentare, quella della centralità dei consessi elettivi confermata proprio dall’esito referendario che ha respinto l’idea contenuta nella deforma di spostare l’asse verso la centralità dell’esecutivo.
Oggi si proclama di voler tornare alla centralità parlamentare, ma questo fatto non potrà realizzarsi se non muta nel profondo il grado e la qualità di rappresentatività delle forze politiche in funzione delle contraddizioni sociali con un recupero di effettivo radicamento anche territoriale.
Il Parlamento deve rappresentare ancora il luogo dove la governabilità è garantita dal voto di fiducia, e non da una semplice ratifica che fa assomigliare il risultato elettorale al risultato di un’elezione diretta, come sta accadendo in queste ore per opera di un inaccettabile operazione di fraintendimento collettivo.
E’ in atto un pericoloso corto circuito di ulteriore riduzione del rapporto tra politica e società (assumendo anche la scorciatoia della “democrazia diretta” attraverso l’utilizzo delle nuove tecnologie), in un quadro che rimane sostanzialmente populistico e personalistico, di vero e proprio pericolo per la democrazia.
Riaprire la riflessione su questi punti appare come un imperativo d’obbligo.
Si tratta di partire dalla constatazione che non va mai dimenticato come il sistema elettorale (nel suo insieme, non soltanto la formula che traduce i voti e i seggi) rimanga il cardine del sistema su cui poggia l’intero sistema politico.
L’agire politico non può cominciare e finire esclusivamente nella ricerca della governabilità perché allora si trasforma esclusivamente in una lotta per il potere fine a se stessa. Potere che, in quelle condizioni, si finisce per esercitare esclusivamente con la violenza prima di tutto morale se non quando fisica.
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