La pantomima generale per formare un governo fotografa esattamente l’inesistenza di una “sfera indipendente” chiamata politica. Al contrario di quanto sostenuto per oltre 50 anni dalla vulgata “operaista”, il politico non è in grado di esercitare alcuna autonomia rispetto a interessi e decisioni prese in altra sfera (economia globale, mercati internazionali, istituzioni sovranazionali).
I due “vincitori” del 4 marzo avevano in effetti poche cose in comune, per quanto riguarda il “programma”, tranne una, ma decisiva per incontrare e raccogliere il malessere crescente di una quota sempre più ampia di popolazione: la critica durissima – a parole – contro l’Unione Europea, i suoi vincoli, i trattati, e persino la sua moneta unica.
Lega e Cinque Stelle, per questo, erano comunemente indicate come forze euroscettiche, inaffidabili (dal punto di vista dell’establishment), potenzialmente pericolose.
Dal 4 marzo ogni riferimento a questo background originario è scomparso dalla retorica ufficiale di Luigi Di Maio e sopravvive per vaghi accenni in qualche sortita nervosa di Matteo Salvini (“se non ci sbrighiamo ci mandano un governo via fax da Bruxelles”).
Addirittura, il “contratto in 10 punti” proposto dal M5S a entrambi “i forni” – centrodestra e Pd – parte da una resa senza condizioni agli schieramenti internazionali consolidati:
“La cura dell’interesse nazionale può efficacemente svolgersi solo all’interno dei trattati stipulati con i Paesi che partecipano all’integrazione più stretta in Europa. Saranno mantenuti gli impegni già assunti in sede europea. Ma il governo sarà fermo nel pretendere il rispetto dell’uguaglianza fra gli Stati che fanno parte dell’Unione e nell’esigere, per tutti e in ogni caso, l’assolvimento degli obblighi di solidarietà. Si farà promotore di iniziative innovative, per esempio per quanto concerne il regolamento di Dublino. Terrà fede agli impegni assunti in sede atlantica, nel quadro di una piena condivisione dei fini e dei mezzi”.
Siamo alla riedizione mesta e burocratica del renziano “batteremo i pugni sul tavolo”, anticipando in concreto – e al massimo – una richiesta di ridiscussione del trattato che regola i flussi migratori in ambito Ue.
Sarebbe facile ironizzare sull’affermazione “La cura dell’interesse nazionale può efficacemente svolgersi solo all’interno dei trattati stipulati con i Paesi che partecipano all’integrazione più stretta in Europa. Saranno mantenuti gli impegni già assunti in sede europea”, visto che da quando i trattati sono diventati vigenti e stringenti “l’interesse nazionale” – tranne quello della classe dominante – è stato regolarmente messo in secondo piano rispetto ai “sacrifici” da fare per stabilizzare i conti, avvicinare il pareggio di bilancio (infilato senza discussione nell’art.81 della Costituzione), ecc.
Qualcuno potrebbe considerare una nostra “fissa” la critica radicale dell’Unione Europea, e dunque valutare come “sobrio” realismo quello pentastellato: “mettiamo da parte le questioni divisive”, “diamo un contentino all’establishment internazionale” e “concentriamoci invece sui punti di programma su cui abbiamo fondato il nostro successo elettorale”.
Il fatto è che le due cose vanno insieme. Non c’è nessun “programma alternativo” da realizzare se si accetta di “partecipare all’integrazione più stretta in Europa” (ovvero la Ue, l’Europa è un continente e un concetto più ampio). E lo sanno benissimo gli estensori del “contratto in 10 punti” per la formazione di un governo, che hanno cancellato tutti – ma proprio tutti – i punti rilevanti, o “le promesse”, sbandierate in campagna elettorale.
Cancellate brutalmente, oltretutto. Il famosissimo “reddito di cittadinanza” – che nascondeva comunque un dispositivo di workfare, obbligo di lavoro a bassissimo reddito – è stato sostituito da “politiche attive di sostegno al reddito e riforma dei centri per l’impiego”. In pratica, una lieve estensione del micragnoso “reddito di inclusione” già elargito a pochissime famiglie dal governo Gentiloni.
Sparito ogni riferimento alla cancellazione o revisione della legge Fornero (che costituiva pure un segno distintivo della Lega). Così come la flat tax, tanto cara al duo Salvini-Berlusconi, viene annegata in un onirico “cambiare il rapporto tra il cittadino e il fisco”. L’elenco delle scomparse sarebbe lunghissimo, ma anche inutile.
Il nocciolo della questione è infatti chiarissimo: se non sei davvero determinato a rompere il quadro dei vincoli esistente (sovranazionale, come si vede ogni giorno), ossia se non sei espressione diretta e autentica di un blocco sociale definito per interessi materiali e ambizioni di emancipazione, ogni tua critica all’“austerità” imposta dalla Troika è pura chiacchiera elettorale; promessa tradita già prima che le urne vengano chiuse.
E dunque la “formazione di un governo” diventa una selezione tra quanti sono disposti a realizzare “il programma” già deciso dai trattati europei, con tanto di scadenze, “impegni” e procedure controllate dalla Commissione, fin nei dettagli. E se la pressione europea non dovesse essere sufficiente, ecco che possono aggiungersi quella del Fondo Monetario Internazionale e, ça va sans dire, della Nato.
Sono sempre meno, “a sinistra”, coloro che ancora fanno finta di non vedere come siano intrecciate politiche “interne” – uguali per tutti i paesi europei, come dimostra l’assalto di Macron ai diritti sociale e contrattuali in Francia – e “politiche europee” inchiavardate in trattati non modificabili se non all’unanimità. E sono sempre meno giustificabili.
Possiamo capire la loro difficoltà a uscire dallo schema imposto dal “pensiero unico” (quello per cui l’unica alternativa all’Unione Europea sarebbe il “ritorno alla nazione”), ma speriamo per loro che ricomincino a ragionare il prima possibile.
Non si costruiscono “alternative” restando all’interno della “gabbia” e della sua logica. Chi si illude di poterlo fare, “riformando la Ue”, va a sbattere contro il muro e si rompe le corna.
L’aveva dimostrato Tsipras in Grecia. Lo dimostrano oggi Lega e M5S in Italia.
In Europa prende corpo una consapevolezza diversa e più matura, come dimostrato dalla “Dichiarazione di Lisbona” firmata da France Insoumise, Podemos e Bloco De Esquerda. Rompere l’Unione Europea, avere un “piano B”, è semplicemente la condizione necessaria per realizzare i cambiamenti sociali necessari al nostro blocco sociale.
Ed è anche l’unico modo di fermare e battere il ritorno delle destre nazionalistiche in tutta Europa, alimentate proprio dalla miseria crescente che vanno diffondendo le scelte della Ue, tutte a favore del capitale multinazionale e finanziario.
L’altra via – accettare di fare la foglia di fico “di sinistra” del neoliberalismo “democratico” – è solo una forma di suicidio assistito, una pensata idiota da “partito degli assessori”.
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