Prosegue in Turchia, nel silenzio di gran parte dei nostri media, l’ondata di processi a carico di giornalisti accusati – come già avvenuto per migliaia e migliaia di altri professionisti – di appartenere alla rete di Fetullah Gulen. Naturalmente, le accuse riguardano e colpiscono tutti coloro non siano fortemente schierati con il neo-sultano turco Recep Tayyp Erdogan, che dal presunto tentativo di colpo di stato del 15 luglio 2016 non ha dato scampo ai propri oppositori, prendendo il fallito golpe come occasione per accentrare ulteriormente nelle proprie mani i poteri dello Stato e silenziare qualsiasi forma di dissenso.
Gli ultimi sviluppi sul fronte giudiziario riguardano il quotidiano di opposizione Cumhuriyet, uno dei principali bersagli della repressione voluta da Erdogan; ieri infatti, a Istanbul, nel penitenziario di Silivri, la corte ha emesso durissime sentenze a carico di giornalisti, collaboratori ed editori del giornale: sette anni e sei mesi di reclusione per i reporter Orhan Erinc, Akin Atalay, Aydin Engin e Hikmet Cetinkaya, per il direttore Murat Sabuncu e per il cronista investigativo Ahmet Sik. Poco meglio – sei anni e sei mesi – è andata all’editore Altay, rilasciato ieri in attesa del processo di appello dopo oltre 500 giorni di carcere. Condanne tra i tre e i quattro anni a Musa Kart e a Onder Celik, Kadri Gursel, Hakan Kara, Emre Iper e Bulent Utku. Tre, invece, i giornalisti prosciolti: Bulent Yener, Turhan Gunay e Gunseli Ozaltay.
Prosegue intanto in forma separata il processo all’ex vicedirettore di Cumhryet, Can Dundar. Il suo caso è, forse, il più emblematico: per lui è stata infatti già emessa una sentenza a 5 anni di carcere, decisione che lo ha costretto a lasciare la Turchia e a vivere in esilio in Europa. La sua colpa è l’aver documentato attraverso fotografie e filmati la consegna di armi da parte del Mit – il servizio segreto turco – ad esponenti di gruppi jihadisti operanti in Siria: “diffusione di segreti di Stato”, recita l’accusa.
Silenziata la stampa e qualsiasi forma di opposizione, Erdogan si prepara così alle ormai imminenti elezioni anticipate, volute dallo stesso leader per poter velocizzare l’entrata in vigore di quella riforma costituzionale che trasforma la Turchia in una repubblica presidenziale e, come detto, accentra in modo preoccupante i poteri nelle mani del capo dello stato.
Evidentemente la repressione non riguarda soltanto Cumhuryet: in Turchia sono 170 i giornalisti in stato di detenzione e, da quel 15 luglio 2016, sono oltre 200 le testate che sono state chiuse per decreto governativo: siti web, quotidiani, emittenti televisive e radiofoniche, agenzie di stampa. Nessuno è sfuggito alla ferocia di Erdogan. Più in generale, sono 150 mila le persone che, dal fallito golpe, sono state fermate dalle forze dell’ordine per presunti legami con i cospiratori e 78 mila quelle che sono state tratte in arresto. Questi ultimi dati – riportati dall’agenzia NenaNews – sono stati elaborati nientemeno che dalla Commissione Europea. Quella stessa Commissione che ha versato finora 6 miliardi di euro (in due tranche da 3 miliardi l’una: l’ultimo ok della UE risale a metà marzo 2018) nelle casse della Turchia per “gestire” (ma sarebbe più corretto dire bloccare) il flusso di migranti che cercava – e cerca – di arrivare nel nostro continente attraverso la rotta balcanica.
Una vicenda, quella turca, che inevitabilmente si lega con molti dei temi centrali della nostra epoca: la gestione dei migranti, la lotta – vera o presunta – al terrorismo jihadista, la libertà di informazione, lo stato della democrazia. Una vicenda di cui, purtroppo, si parla sempre meno, come se il diritto ad informare – e, specularmente, quello ad essere informati – siano questioni ormai secondarie o di poco conto.
Ci piace però sottolineare le parole che Sabuncu ha pronunciato ieri, subito dopo la lettura della sentenza: “Nessuna condanna potrà impedirci di fare giornalismo. Se necessario andremo in prigione di nuovo ma continueremo a fare giornalismo”. Magari con un sostegno più tangibile da parte dei colleghi europei ed internazionali.
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