Le guerre hanno questo di positivo: costringono a una scelta di parte. Difficile continuare a sguazzare nell’ingegneria dei né né, nell’indolenza di chi si arrampica sui «sebbene» e gli «anche se» pur di non dichiarare il proprio appoggio esplicito al regime change atlantista.
Certo in Europa, più che altro in Italia, continueranno le cantilene
dirittoumaniste, ma in Siria i bombardamenti hanno ricondotto torti e
ragioni ai propri referenti. Naser al Hariri, ad esempio. Che proprio
ieri dichiarava sul Corsera i propri intenti bellicosi: «ben
vengano i raid degli Stati Uniti assieme a Francia e Gran Bretagna in
Siria». Nientemeno. Il tipo in questione non è uno qualsiasi. Al
contrario, è il rappresentante della «opposizione siriana» alla
«conferenza di pace» di Ginevra. E’ il rappresentante del National Coalition for Syrian Revolution and Opposition Forces, la coalizione dei gruppi anti-governativi di cui fa parte anche il Free Syrian Army. E’ insomma il vertice della proxy war organizzata in Siria da sette anni a questa parte.
Nell’intervista, rilasciata a Lorenzo Cremonesi, scopre tutti gli
obiettivi dei gruppi atlantisti operanti in Siria. In primo luogo,
l’intervento degli Stati Uniti è necessario non solo alla sopravvivenza
della «opposizione», ma soprattutto a contenere Hezbollah: «il loro
impegno [degli Usa] è stato fondamentale per battere l’Isis [!] ed ha impedito che i filo iraniani dell’Hezbollah libanese si espandessero nel nord est».
L’obiettivo dichiarato non è più, come volevasi dimostrare,
“l’abbattimento del tiranno”, ma combattere il rafforzamento di Iran e
Hezbollah in Medioriente e in particolare in Siria. Sono loro il nemico
principale, di cui Assad è solo un pezzo di un puzzle più vasto.
Conseguentemente, il suo augurio è «piuttosto che l’impegno americano
aumenti e possa coinvolgere altri partner». Quali altri partner
è presto detto. La Turchia, ad esempio, visto che la «Coalizione
nazionale per la rivoluzione etc.» ha sede proprio a Istanbul. Guarda tu
il caso. Così come non è un caso la posizione di al Hariri e del
carrozzone atlantista sui curdi: «noi distinguiamo tra le milizie curde
alleate del PKK curdo in Turchia, che crediamo vadano smantellate, e
i miliziani curdi siriani». Finito (?) il problema Isis, i curdi
tornano ad essere merce di scambio. In primo luogo per quella
«opposizione siriana» che se ne è servita in chiave anti-Assad: adesso
che i curdi del Rojava e le forze militari siriane hanno stretto
l’accordo in difesa del territorio siriano, i curdi tornano a far parte
del problema, e non più della soluzione al salafismo jihadista. Così
vanno le cose nella rivoluzione siriana, terra promessa della sinistra
imperiale.
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