di Michele Giorgio – il Manifesto
James Mattis voleva
l’approvazione del Congresso al raid contro la Siria lanciato sabato
scorso dagli Stati Uniti. La richiesta del Segretario alla difesa però
fu respinta da Donald Trump, intenzionato a non attendere i tempi della
politica e a colpire Damasco subito in risposta al mai accertato
attacco con armi chimiche su Douma del 7 aprile, attribuito
dall’opposizione siriana all’aviazione governativa. Mattis comunque avrebbe strappato al presidente il sì a lanci di missili limitati a tre obiettivi, per evitare di colpire le postazioni russe in Siria. A
scriverlo è stato il New York Times rivelando il retroscena
dell’attacco e le differenze in seno all’Amministrazione sulla politica
Usa nei confronti della crisi siriana. Il Pentagono ha negato tutto
bollando la rivelazione del Nyt come falsa.
La questione è di scarso rilievo. Ciò che conta è che Washington, assieme a Londra e Parigi, ha aggredito la Siria senza attendere la foglia di fico di una risoluzione Onu e senza permettere lo svolgimento di indagini per accettare cosa sia accaduto il 7 aprile.
L’incertezza intanto si fa sempre più fitta mentre Trump, Emmanuel
Macron e Theresa May nei giorni scorsi parlavano di uso certo di armi
chimiche.
Dopo il giornalista britannico Robert Fisk che ha riferito di non
aver trovato a Douma conferme di un attacco con gas velenosi a danno
della popolazione civile, anche un reporter americano, Pearson Sharp, di One America News – network tv conservatore che ha appoggiato la campagna elettorale di Trump – ha espresso forti dubbi. Sharp ha detto di aver intervistato dieci abitanti e nessuno di essi ha avvalorato la tesi di un lancio di ordigni con gas.
Sharp ha aggiunto di essere entrato nel quartier generale di Jaysh
al Islam, il gruppo jihadista finanziato dall’Arabia Saudita che fino a
qualche giorno fa aveva il controllo di Douma, trovandoci migliaia di
proiettili di mortaio e ingenti quantitativi di armi.
Tra lo scetticismo di Trump e dei suoi alleati, gli esperti dell’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche (Opac) si dicono pronti a fare luce sull’accaduto.
Ma non hanno cominciato il loro lavoro. Giunti a Damasco il 14 aprile,
aspettano ancora il via libera dei responsabili della sicurezza delle
Nazioni Unite per avviare le indagini. Ieri il direttore dell’Opac,
Ahmet Uzumcum, è stato perentorio quando ha affermato che la missione
diventerà operativa solo se le sarà consentito l’accesso illimitato a
tutte le aree di indagine. Peraltro ieri a Douma si sono sentiti degli spari e questo ha frenato ulteriormente il via libera degli uomini della sicurezza dell’Onu.
Ad alcuni chilometri di distanza da Douma, le forze armate siriane intanto hanno intensificato la pressione attorno al campo profughi palestinese di Yarmuk
– la sua popolazione in gran parte è fuggita negli anni passati – e ai
vicini sobborghi di Hajar al Aswad e Babila, fuori dal controllo
governativo da sei anni e dal 2015 nelle mani dei miliziani dello Stato
islamico che qualche settimana fa sono entrati anche a Qadam, sempre a
ridosso di Damasco, abbandonato dai rivali qaedisti di an Nusra.
Sconfitti intorno alla capitale, i jihadisti hanno provato ieri a
cogliere di sorpresa l’esercito siriano a Quba al Kurdi, a sud di Hama,
un’area strategica in ci sono stanziate le forze governative e i
miliziani. I combattimenti in quella zona ora sono intensi.
Con il ritorno di una calma relativa in diverse aree del Paese, si accentua il rientro a casa dei siriani fuggiti in Giordania, Libano e Turchia.
462 rifugiati da anni ospitati nella località meridionale libanese di
Shabaa, ieri a bordo di autobus hanno attraversato la frontiera e si
sono diretti verso Beit Jinn, sulle pendici orientali delle Alture del
Golan occupate da Israele.
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