In un articolo uscito sul sito de L’Antidiplomatico dal titolo Il salario minimo risolve da sinistra i problemi dell’immigrazione? il compagno Omar Minniti respinge la tesi di coloro che, al fine di porre termine alla concorrenza fra la forza lavoro autoctona e quella straniera, propongono l’istituzione di un «salario minimo uguale per tutti, italiani e migranti, che costringa i proprietari dei campi, dei cantieri e delle fabbriche a non assumere più manodopera sottopagata, impedendo così che questa faccia concorrenza al ribasso ai lavoratori che hanno a cuore i loro diritti sindacali e riduca drasticamente il costo del lavoro».
Sempre secondo Minniti se venisse introdotta una misura del genere i datori di lavoro preferirebbero assumere lavoratori locali e ciò comporterebbe che gli immigrati attualmente impiegati «verrebbero immediatamente espulsi dai processi produttivi e privati perfino di quella miseria che percepivano prima come semi-schiavi, sia nella condizione di lavoratori regolari ma sottopagati, che in quella di lavoratori al nero».
La soluzione secondo l’autore quindi non può essere altro che la limitazione dei flussi migratori. Ad avviso dello scrivente tesi del genere sono sbagliate in quanto rischiano di agire come fattore di disgregazione dei lavoratori in funzione di una guerra fra poveri, ostacolando l’opposizione sociale e la formazione di un blocco sociale alternativo.
Il fenomeno dell’immigrazione proletaria non è certo una novità e i marxisti hanno già avuto modo di trattare questo tema, a cominciare da Engels nel suo libro su “La situazione della classe operaia in Inghilterra” del 1845. Lo stesso Marx, in una lunga lettera a Sigfrid Meyer e August Vogt, due dei suoi collaboratori negli Stati Uniti, affrontò questo punto parlando degli effetti dell’immigrazione irlandese in Inghilterra. Nella sua lettera del 1870, Marx puntava il dito nei confronti della politica inglese verso l’Irlanda. Secondo il Moro di Treviri infatti l’aristocrazia inglese e la borghesia hanno avuto «un interesse comune a trasformare l’Irlanda in pura e semplice terra da pascolo che fornisce carne e lana ai prezzi piú bassi possibili per il mercato inglese». Inoltre riducendo la popolazione irlandese «mediante esproprio e emigrazione forzata» il capitale inglese poteva «funzionare in questo paese con “sicurezza”».
Ma secondo Marx la borghesia inglese aveva altri «interessi ancora più notevoli nell’attuale economia irlandese». «Attraverso la continua e crescente concentrazione dei contratti di affitto – scriveva Marx – l’Irlanda fornisce il suo sovrappiù al mercato del lavoro inglese e in tal modo comprime i salari nonché la posizione materiale e morale della classe operaia inglese».
« E ora la cosa piú importante di tutte! Ogni centro industriale e commerciale in Inghilterra possiede ora una classe operaia divisa in due campi ostili, proletari inglesi e proletari irlandesi. L’operaio comune inglese odia l’operaio irlandese come un concorrente che comprime il livello di vita. In relazione al lavoratore irlandese egli si considera un membro della nazione dominante e di conseguenza diventa uno strumento degli aristocratici inglesi e capitalisti contro l’Irlanda, rafforzando così il loro dominio su se stesso. Egli nutre pregiudizi religiosi, sociali e nazionali contro l’operaio irlandese. Il suo atteggiamento verso di lui è più o meno identico a quello dei “bianchi poveri” verso i negri negli ex Stati schiavisti degli U.S.A. L’irlandese lo ripaga con gli interessi della stessa moneta. Egli vede nell’operaio inglese il corresponsabile e lo strumento idiota del dominio inglese sull’Irlanda.
Questo antagonismo viene alimentato artificialmente e accresciuto dalla stampa, dal pulpito, dai giornali umoristici, insomma con tutti i mezzi a disposizione delle classi dominanti. Questo antagonismo è il segreto dell’impotenza della classe operaia inglese, a dispetto della sua organizzazione. Esso è il segreto della conservazione del potere da parte della classe capitalistica. E quest’ultima lo sa benissimo».
Anche oggi la classe capitalista è perfettamente cosciente che la divisione fra proletari immigrati e italiani è un fattore chiave della paralisi della classe operaia, e naturalmente fa di tutto per mantenere e rafforzare questa divisione, questa ostilità, questo razzismo, questo sentimento di superiorità nazionale. La cosa sorprendete invece è come di questo fatto non si rendano conto certi compagni che sostenendo le tesi di una certa destra anti-immigrati rischiano di lavorare per il Re di Prussia. È un po’ come se il PCI durante gli anni cinquanta e sessanta invece che invitare i lavoratori a scioperare contro la FIAT avesse aizzato gli operai torinesi contro quelli calabresi e napoletani.
La famosa esortazione contenuta nel Manifesto del Partito Comunista «Proletari di tutti i paesi, unitevi» («Proletarier aller Länder, vereinigt euch!») indica che non esiste una unità nell’immediato (altrimenti non ci sarebbe bisogno di unirsi) ma che questa vada costruita. La coscienza di classe non è un qualcosa di già dato ma un qualcosa che si forma attraverso un lungo processo di apprendimento. Marx, come è noto operava la famosa distinzione fra «classe in sé» (ovvero la sua collocazione oggettiva) e «classe per sé» (che fa riferimento alla dimensione soggettiva, alla presa di coscienza da parte del proletariato della propria condizione di classe sociale). Secondo i marxisti lo strumento attraverso il quale avviene il passaggio dalla «classe in sé» a quella «per sé» è il Partito rivoluzionario, perché altrimenti la classe in sé, secondo Marx e Lenin e secondo l’esperienza storica, nelle sue lotte più avanzate non può che limitarsi al massimo al «tradeunionismo».
La mancanza di una seria organizzazione politica di classe unita ad un inedito fenomeno di trasformismo di massa da parte di alcuni esponenti del ceto politico e intellettuale di ciò che rimane della cosiddetta sinistra radicale verso una forma di socialsciovinismo postmoderno adeguato alla società dello spettacolo, rischia di far piombare il nostro paese in anni bui ed in una deriva reazionaria difficilmente arrestabile.
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