Uno dei personaggi chiave dell’inchiesta Russiagate, Paul Manafort – che ebbe un ruolo centrale nella vincente campagna elettorale di Donald Trump – andrà in carcere, e rischia persino l’ergastolo.
Manafort, libero su cauzione dopo essere stato accusato di una serie di reati anche molto gravi (cospirazione contro gli Stati Uniti d’America, tanto per citarne uno), avrebbe tentato di corrompere alcuni testimoni.
Di qui la decisione di un giudice federale di annullare la libertà su cauzione e mandare il lobbista dietro le sbarre: troppo alto il rischio di inquinamento delle prove.
Paul Manafort, figura importante all’interno dello staff che gestì la campagna elettorale di Trump nel 2016, è stato coinvolto nel Russiagate poco meno di un anno fa. Nell’ottobre del 2017 il procuratore Mueller, titolare dell’inchiesta sulle presunte interferenze russe nel regolare svolgimento delle ultime presidenziali, lo ha accusato di una serie di reati tra cui falsa testimonianza, ostruzione alla giustizia e frode bancaria.
L’accusa più grave, naturalmente, e quella più interessante per Mueller ed il suo team investigativo, è quella di aver cospirato contro lo Stato.
Il riferimento è ai rapporti diretti ed indiretti di Manafort con la Russia: in particolare sotto la lente di ingrandimento degli inquirenti c’è il sostegno all’allora presidente ucraino Victor Yanucovych, sostenuto da Mosca, attraverso il pagamento di oltre due milioni di euro effettuato a favore del “Gruppo Hapsburg”, formato da rappresentanti politici europei.
Una spy story che impressiona relativamente, visto che ormai l’attività di lobbiyng più o meno legale è diffusa in Europa tanto quanto lo è negli Stati Uniti.
In questo caso però si sarebbe esagerato, almeno secondo le tesi accusatorie di Mueller: da qui le accuse a Manafort, la richiesta di cauzione, i tentativi (al momento presunti, ma evidentemente credibili, per la giustizia federale USA) di corruzione e la decisione di mandare Manafort in galera. Il processo è stato fissato per il 10 luglio.
E’ il primo personaggio coinvolto nell’inchiesta Russiagate a finire in prigione: l’entourage di Trump ha già comunicato che Manafort in realtà non aveva un ruolo così significativo all’interno dello staff elettorale, e pur difendendolo ha chiarito che la posizione del lobbista nei confronti dell’allora futuro presidente era marginale.
Opposta la versione offerta da molti dei giornalisti che seguirono la campagna elettorale di Trump, e che indicano in Manafort un personaggio assolutamente centrale: fu lui, ad esempio, ad indicare Mike Pence come possibile vicepresidente. Cosa che poi avvenne.
In difesa di Manafort è intervenuto nelle ultime ore anche Rudolph Giuliani, da qualche tempo elemento di spicco dello staff legale di Trump: “Quando l’intera cosa sarà finita, le cose potrebbero essere ripulite con qualche grazia presidenziale” – ha dichiarato, aggiungendo “ Questo tipo di indagine non dovrebbe proseguire, è tempo per la giustizia di indagare gli investigatori”.
Dichiarazione abbastanza bellicosa, che potrebbe indicare un cambio di atteggiamento di Trump e dei suoi nei confronti dell’inchiesta, fino a ieri mediaticamente ignorata e minimizzata. Eppure va avanti, e l’arresto di Manafort potrebbe rappresentare una possibile “escalation”. D’altronde, aver posto un uomo come Rudolph Giuliani (che si costruì una solida fama come sindaco sceriffo di New York, oltre che come “il sindaco dell’11 settembre”) a capo dello staff legale indica un cambio di atteggiamento nei confronti di tutta la vicenda, che qualche problemino a Trump potrebbe creare. Non dimentichiamoci mai che la conseguenza estrema di questo tipo di inchieste è la richiesta di avvio della procedura di impeachment.
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