Nemmeno la OEA ha voluto prestarsi al tentativo di colpo di stato
della destra in Nicaragua. Lo stesso Segretario Generale, Almagro, aveva
del resto già avvertito come il dialogo tra le forze politiche fosse
l’unica via per disegnare un profilo di riforme istituzionali, compresa
quella elettorale, e che solo attraverso elezioni si può conquistare il
governo del Paese.
Almagro aveva anche ricordato che il governo sandinista non è certo
etichettabile come una dittatura, mentre al contrario le menzogne
offerte dall’opposizione ne dimostrano l’inaffidabilità. Eppure, insieme
alla violenza, le menzogne sono il tratto distintivo del tentativo di
colpo di stato di una destra che prova a mangiarsi il paese. Il racconto
dei media internazionali è indecente, in Italia si segnalano Repubblica, Corriere e Manifesto nella corsa al falso.
Il Nicaragua è ormai simbolo dell’iperbole, regno del surreale,
laboratorio della manipolazione, dell’offesa alla logica, dell’ignoranza
che vuole imporsi sul buon senso. Dal 18 Aprile la verità viene
schiacciata dalla propaganda della casta padronale che utilizza armi e
tastiere per imporre la sua agenda. Sebbene si applichi il piano
previsto da Gene Sharp, lì conosciuto come golpe suave e qui
come “primavere” o “rivoluzioni colorate”, la variante nicaraguense si
caratterizza per un aspetto più crudele nella violenza perpetrata e,
soprattutto, per l’uso massiccio, più che in ogni altro contesto, di
menzogne senza limiti ed immagini stereotipate basate sul rovesciamento
dei fatti.
Sui media i teppisti diventano “studenti pacifici”, ma non sono né
studenti e tanto meno pacifici. Uccidono e bruciano, colpiscono i
militanti sandinisti ma la stampa li definisce vittime della Juventud Sandinista.
Eppure alcune incongruenze sono palesi. Ad esempio ci si potrebbe
chiedere se è credibile che la richiesta di democrazia e di difesa dei
più poveri veda alla testa delle manifestazioni gli imprenditori, i
latifondisti e la gerarchia ecclesiale. In quale paese si è mai visto?
Ed è credibile che i sandinisti brucino le loro sedi e le loro case, i
loro veicoli e le loro bandiere, che distruggano monumenti e murales
dedicati agli eroi sandinisti e che, per concludere, si sparino
addosso?
Si è detto che il governo reprime, ma in quale altro paese la polizia
per ordine del governo, in ossequio a quanto stabilito nel dialogo
nazionale, resta nei commissariati e le bande delinquenziali che
dovevano fermarsi sono invece all’opera, bloccando strade, uccidendo,
devastando e saccheggiando? E come è possibile credere che gli studenti
sono pacifici e la polizia è repressiva quando sono ormai oltre 10 i
poliziotti uccisi da colpi di arma da fuoco? Per molto meno negli USA,
come in Brasile, in Perù e in Colombia l’esercito è sceso in strada ed è
stato imposto il coprifuoco, ma nessuno ha parlato di dittatura.
In Nicaragua non c’è una rivolta popolare contro il governo, solo in
23 municipi su 153 vi sono disordini. C’è una destra che ha ritrovato la
sua vena entreguista alla quale è storicamente affezionata ed
ha mobilitato tutto l’antisandinismo, mai da sottovalutare per numeri ed
odio. La riforma (ritirata) dell’Inss è stato l’innesco, ma le ragioni
di questa esplosione di violenza risiedono nella decisione maturata tra
Washington, Miami e Managua di tentare un colpo di Stato per disfarsi
del governo sandinista.
Ha ritenuto fosse giunto il momento di approfittare della congiuntura
giusta: un Dipartimento di Stato USA infarcito da Trump dei peggiori
arnesi del terrorismo anticubano. L’applicazione del piano scatenato in
Venezuela e nei paesi est-europei o in quelli arabi si ripete, ma ha nel
Nicaragua il sordido piacere della vendetta contro i sandinisti che gli
USA non riuscirono mai a sconfiggere negli anni ’80. Non a caso la
destra ora corre da Ted Cruz con lingua e ginocchia in reverenza.
La destra ha pensato di dover usufruire dell’intervento straniero per
raggiungere lo scopo: dapprima inginocchiandosi a Washington per
ottenere il Nica Act, poi cercando di garantirsi l’entrata in scena di
paesi terzi per provare a dare la spallata. Perché si desse questa
opportunità era necessario porre il paese in emergenza; senza una
condizione di guerra civile nessun paese straniero o istituzione
internazionale si sarebbe mossa.
Per innescarla ci si è serviti di un partitino, l’MRS, che dalla sua
nascita si è sempre presentato in coalizioni elettorali con l’estrema
destra, ma in giro per il mondo si spaccia con partito di sinistra,
ovviamente dove i sinistrati si lasciano ingannare. L’MRS è lo stato
maggiore delle truppe del rancore, che dirige maras e lumpen addetti allo sfascio in cambio di dollari. Non riuscì a rubarsi il FSLN nel 1994 e prova ora a rubarsi il paese intero.
Ma il tentativo di scatenare una guerra civile non ha funzionato: il
Presidente Ortega, che pure avrebbe potuto dare via libera alla difesa
del paese e dell’integrità sandinista, ha tenuto il FSLN e le forze di
sicurezza con le mani ferme. Al momento, dunque, niente guerra civile ma
solo vandalismo, che attiene alla delinquenza e non alla politica.
L’equazione tra destra e violenza prende corpo, diviene senso comune e
nemmeno l’altra grande manipolazione che vede tutti i morti degni dello
stesso dolore, funzionerà per molto, perché tra le vittime e i
carnefici non c’è confusione possibile.
Dovranno
quindi tornare al tavolo debilitati, con una destra che ha visto
naufragare la spallata e una Chiesa che ha perso ogni prestigio di
mediatore e nel porsi alla testa della destra è stata smentita da Papa
Francesco. Il negoziato dovrà essere più credibile di quello precedente,
anche se l’obiettivo di entrambi è sempre stato la cacciata del
sandinismo dal governo del Nicaragua e non vi saranno, all’apparenza,
novità. Nel precedente negoziato si pose la rinuncia di Daniel Ortega
come condizione per parlare, a metà strada tra una minaccia e una
promessa, fatta senza il minimo senso del ridicolo, prima che delle
proporzioni dei rapporti di forza.
Cosa significa, infatti, chiedere a Daniel Ortega, eletto con una
maggioranza assoluta schiacciante, di lasciare il governo? Chiedere di
farsi da parte a Daniel Ortega è come chiedere al Nicaragua di espungere
il sandinismo dalla sua prospettiva a breve-medio termine, sebbene esso
rappresenti l’opzione maggioritaria del Paese.
Daniel Ortega del sandinismo è leader, è anima e corpo, è memoria
storica e prospettiva politica: in lui si riconosce il suo elettorato, a
lui guardano le centinaia di migliaia di nicaraguensi che ne hanno
scelto la leadership prima da Presidente, poi da capo dell’opposizione,
quindi di nuovo da Presidente. E di fronte a chi e a cosa dovrebbe
arrendersi il FSLN, che nella sua storia porta le stimmate del rifiuto
della resa contro nemici di ben altro spessore?
Daniel e il FSLN resteranno al loro posto. Si potrà allora solo
condividere un’agenda di riforme che ponga al centro un nuovo sistema di
regole che tutti dovranno accettare, senza dimenticare che ogni
modifica della Costituzione può essere fatta solo con il voto del
Parlamento. Dunque o con questo Parlamento o con quello che scaturirà
dalle prossime elezioni, la cui scadenza prevista (2021) sarà certamente
oggetto di discussione, perché la destra le vorrebbe immediate per
capitalizzare la spinta delle proteste.
Ci si arriverà forse prima della scadenza naturale ma non certo
immediatamente. E lì si vedrà il limite di una destra già divisa, priva
di leadership e di respiro politico; si tiene insieme solo con l’odio
viscerale verso Daniel Ortega e il sandinismo, ma benché abbia
riscoperto la sua dimensione di massa, abbia testato il suo ricorso alla
piazza, non è in grado di costruire una proposta politica vincente.
Il suo sogno è ripetere quanto avvenne nel 1990, quando 14 partiti si
unirono contro il FSLN e vinsero le elezioni. Ma il contesto è molto
diverso. Nel 1990 si votò con la pistola alla tempia, ma non sarà più
così. Il Nicaragua di oggi, diversamente che nel 1990, non viene da una
guerra con 50.000 vittime e da un embargo che mette in ginocchio il
paese. Non c’è l’incubo del servizio militare obbligatorio per i suoi
figli, non c’è la guerra alle frontiere, non c’è la mancanza di alimenti
e generi di prima necessità; abbondano le nascite, non i funerali.
Alle
prossime elezioni la destra arriverà con la responsabilità del golpe
fallito e con l'ondata nichilista, con il veleno sparso nell’aria e i
cadaveri in terra. Il FSLN porterà invece in dote il senso di
responsabilità nazionale, il più grande programma di modernizzazione
nella storia del paese e la sua ascesa a modello di sviluppo per tutta
la regione centroamericana. Cosa che la destra non può vantare, essendo
ancora vivo il ricordo dei drammatici 16 anni di governi liberali, che
schiantarono il Nicaragua portandolo ad un livello pari a quello di
Haiti.
Si è aperta una fase nuova in Nicaragua: è ripreso lo scontro di
classe, politico, ideologico e programmatico. Si porrà quindi il
recupero del ruolo del FSLN, che nell’assenza (fino ad ora) di una
opposizione importante si era troppo concentrato sulla sussidiarietà
dell’attività di governo e nella costruzione delle vittorie elettorali, a
scapito del terreno della lotta politica e ideologica che va invece
riaffrontata. Per porre ognuno al suo posto: gli statisti alla guida
dello Stato, i latifondisti alle loro tenute e i pagliacci nel loro
circo di ex.
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