di Michele Giorgio
Il principe Mohammed bin Salman
con i suoi miliardi non può garantirsi vittorie ai Mondiali in Russia
ma senza dubbio può comprare la politica estera degli altri paesi arabi.
Hanno avuto un riflesso immediato i 2,5 miliardi di dollari
che, lo scorso 10 giugno, assieme ad Emirati e Kuwait, l’Arabia Saudita
ha messo disposizione della Giordania attraversata nei giorni scorsi da
proteste e manifestazioni contro il Fmi e la politica economica dell’ex
premier Hani al Malqi.
Ieri la Giordania ha annunciato di aver
«trasferito», ossia richiamato in patria, il suo ambasciatore in Iran,
Abdullah Abu Rumman. La notizia, non a caso, è stata data subito dalla tv satellitare al Arabiya, megafono della monarchia saudita. Una decisione che il governo di Amman ha spiegato con una presunta «interferenza dell’Iran negli affari regionali» e con la preoccupazione della Giordania per «la sicurezza della regione ed in particolare dell’Arabia Saudita e dei paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo (Ccg)».
Il passo giordano segue quello, altrettanto immotivato, mosso qualche
settimana fa dal Marocco, sempre su pressione saudita, per accrescere
l’isolamento di Teheran. Termina perciò la politica prudente
mantenuta in questi ultimi anni da re Abdallah di Giordania che pur
dichiarandosi vicino all’Arabia Saudita e alle altre petromonarchie ha
comunque tenuto aperto canali di comunicazione con l’Iran e adottato una
posizione più defilata nei confronti della crisi siriana.
Linea che era costata ad Amman il mancato rinnovo nel 2016 del pacchetto
quinquennale di aiuti dal Ccg. La Giordania peraltro è rimasta dietro
le quinte nella campagna militare lanciata da Mohammed bin Salman contro
i ribelli sciiti in Yemen. Ora, si sussurra, re Abdallah potrebbe dare,
contro le sue intenzioni e l’opposizione dei palestinesi, appoggio
all'”Accordo del secolo” di Donald Trump per la “soluzione” della
questione israelo-palestinese, che piace a Riyadh.
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