di Rachele Gonnelli – Il Manifesto
I terminal petroliferi
libici dei porti di Sidra e Ras Lanuf sono di nuovo in fiamme e una
coltre di fumo plumbeo e denso è arrivata fino alla città di Brega. La
compagnia libica Noc ha fatto una prima stima dei danni: 800 milioni di
dollari. Nel ginepraio libico, in questi giorni particolarmente rovente,
c’è persino chi (il figlio di un generale di Haftar dal Cairo) accusa
l’Italia di essere insieme a Qatar e Turchia, uno dei paesi che, per
interessi politici ed economici, sta appiccando l’incendio e
destabilizzando ulteriormente il Paese affinché nulla cambi.
Due grandi serbatoi per lo stoccaggio del greggio, il numero 2
e il numero 12, sono andati distrutti nelle ultime ore nel corso dei
combattimenti che da una settimana vedono contrapposte le truppe del
generale Haftar e le milizie con a capo Ibrahim al Jadhran. Il
trentunenne Jadhnan è una sorta di «signore della guerra» della città di
Brega: dopo aver combattuto a fianco delle milizie della
città-Stato di Misurata nella rivolta del 2011 è stato messo a capo
delle guardie petrolifere, milizie specializzate nel garantire la
sicurezza degli impianti, anche in virtù del grande arsenale di armi
sottratto alle truppe gheddafiane.
Nemico acerrimo di Haftar fu estromesso con le sue guardie dalla
lucrosa protezione di pozzi e tubi dallo stesso governo di Tripoli di
Serraj dopo aver perso il primo confronto armato con Haftar per il
controllo dei terminal due anni fa. Ieri Jadhran ha dichiarato che i
serbatoi di greggio di Ras Lanuf sono stati distrutti da raid
dell’aviazione di Haftar e ha confermato che nel lanciare l’offensiva
per la riconquista dei porti i suoi uomini sono spalleggiati dalle
Brigate di difesa di Bengasi – per Haftar «terroristi» – e da mercenari
del Ciad.
I libici hanno molto chiaro che i loro destini sono legati al petrolio, più che ai migranti africani. Nel
Paese che sotto Gheddafi produceva 1,6 milioni di barili di greggio di
alta qualità al giorno, riempiendo le casse dello Stato oltre ai
portafogli dei clan al potere, oggi scarseggiano i rifornimenti di
benzina, l’energia elettrica va e viene nelle case e i pozzi non riescono a produrre più 240 mila barili al giorno.
Il vicepremier Salvini in varie interviste ieri ha detto che
il premier di Tripoli Serraj «ha chiesto all’Italia un intervento» e che
il governo di Roma è pronto «con la Nato» a intervenire «per la lotta
al terrorismo». Salvini ribadisce di voler recarsi presto in
Libia e, parlando della recente conferenza sulla Libia organizzata a
Parigi dal presidente francese – il cui unico risultato è stato quello
di ribadire la necessità di elezioni politiche entro dicembre – ha
aggiunto: «Non capisco da che pulpito (Macron) voglia fissare le
elezioni, abbiamo visto che certe imposizioni non funzionano».
Macron (alleato di Haftar) l’altra sera ha avuto un colloquio
telefonico con Serraj, per ottenere dal principale alleato italiano la
conferma della data delle elezioni e per ribadirgli en passant l’impegno
a una maggiore cooperazione bilaterale. Anche Salvini promette
«infrastrutture, strade, ospedali», altre dieci motovedette per la
Guardia costiera di Serraj e centri di detenzione per migranti in Libia.
Il comandante della Guardia costiera di Zawia, Abdelrahman al
Milad, è tra i sei boss del traffico di esseri umani colpiti a inizio
mese da sanzioni Onu. Un altro, Ammu Dabbashi gestiva un centro
di detenzione. Human Right Watch in un rapporto ieri ha accusato
l’Italia di estendere il potere dei guardiacoste libici pur consapevole
dei rischi di abusi e torture.
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