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15/06/2018

Rojava tende la mano a Damasco

di Michele Giorgio il Manifesto
 
La notizia riferita dal quotidiano al Sharq al Awsat è passata in sordina malgrado la sua importanza. Le Forze democratiche siriane (Sdf), la potente alleanza nel nord-est della Siria formata da combattenti curdi e arabi, armata e addestrata dagli Stati Uniti, si dicono pronte ad aprire il dialogo con il governo a Damasco e il presidente Bashar Assad.
 
Uno sviluppo di assoluto rilievo ma non inatteso perché è una conseguenza diretta di considerazioni politiche e strategiche ovvie vista la situazione nel paese, nonché una reazione al via libera dato dall’amministrazione Trump all’espansionismo turco e all’offensiva lanciata a inizio anno da Ankara contro Afrin.

Il Consiglio democratico siriano (Dsc), braccio politico delle Sdf, ha proclamato la volontà di avviare «colloqui incondizionati» con il governo siriano e l’impegno a partecipare a una soluzione negoziata per porre fine al conflitto.

Parlando all’Afp a nome di Dsc e Sdf, Hekmat Habib ha confermato l’intenzione di «aprire la porta al dialogo» con Damasco: «Tenendo conto del controllo che le nostre forze hanno sul 30% della Siria e del fatto che il regime ora ha piena autorità su buona parte del paese, appare chiaro che queste sono le uniche due forze che possono sedersi al tavolo di negoziati e formulare una soluzione alla crisi siriana».

A spingere i curdi, o gran parte di essi, a proclamarsi pronti al dialogo con il governo centrale è stata la classica goccia che ha fatto traboccare il vaso, ossia l’accordo raggiunto da Washington e Ankara per il ritiro delle forze curde da Manbij. Accordo che consente a forze Usa (almeno 2mila uomini secondo alcune fonti) e turche di pattugliare la città della Siria settentrionale e i confini, sebbene siano state le Sdf a strappare nel 2016 la città all’Isis al termine di un’offensiva costata pesanti perdite.

Un’ intesa letta come un tradimento delle aspirazioni curde che gli Usa avevano fatto capire di voler aiutare a realizzare, almeno in parte. Invece non appena l’Isis è crollato in Iraq e Siria grazie anche al sacrificio dei combattenti curdi, l’amministrazione Trump è tornata subito ad assecondare i desideri della Turchia membro della Nato anche per allentare le tensioni con Ankara emerse negli ultimi anni.

A preparare il terreno alla possibile apertura di colloqui ufficiali tra curdi e governo centrale, è stata anche l’intervista rilasciata il mese scorso da Assad alla rete televisiva russa Rt. Facendo uso del bastone e della carota, il presidente siriano ha lanciato una sorta di ultimatum ai combattenti delle Sdf: «Siamo disposti ad aprire le porte del negoziato perché la maggior parte di loro sono siriani che amano il loro paese e non vogliono essere marionette degli stranieri – ha detto Assad – Altrimenti, ricorreremo alla liberazione di quelle zone con la forza, è la nostra terra, è nostro diritto e nostro dovere liberarla. Gli americani devono andarsene, in qualche modo se ne andranno».

Dovessero andare in porto i negoziati per lo status del Rojava e del nord della Siria tra Dsc-Sdf e il governo, si potrebbe aprire la strada a una soluzione vera per la Siria.

Tenendo conto anche che le forze armate governative, dopo aver ripreso il controllo dei sobborghi meridionali ed orientali di Damasco, sono ora impegnate a strappare il sud del Paese alla galassia di gruppi jihadisti e qaedisti che da anni ha il controllo dell’area.

Damasco è pronta a lanciare un’ampia campagna militare non appena avrà ragione dei miliziani dell’Isis che tengono il controllo della città di Sweida. L’esercito siriano inoltre sta rafforzando la difesa antiaerea vicino alle Alture del Golan, dispiegando il sistema russo antiaereo Pantsir in grado di contrastare con più efficacia i raid dell’aviazione israeliana.

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