di Michele Giorgio – il Manifesto
La notizia riferita dal quotidiano al Sharq al Awsat è passata in sordina malgrado la sua importanza. Le Forze democratiche siriane (Sdf), la potente alleanza nel nord-est della Siria formata da combattenti curdi e arabi, armata e addestrata dagli Stati Uniti, si dicono pronte ad aprire il dialogo con il governo a Damasco e il presidente Bashar Assad.
Uno sviluppo di assoluto rilievo ma non inatteso perché è una
conseguenza diretta di considerazioni politiche e strategiche ovvie
vista la situazione nel paese, nonché una reazione al via libera dato
dall’amministrazione Trump all’espansionismo turco e all’offensiva
lanciata a inizio anno da Ankara contro Afrin.
Il Consiglio democratico siriano (Dsc), braccio politico delle Sdf,
ha proclamato la volontà di avviare «colloqui incondizionati» con il
governo siriano e l’impegno a partecipare a una soluzione negoziata per
porre fine al conflitto.
Parlando all’Afp a nome di Dsc e Sdf, Hekmat Habib ha confermato l’intenzione di «aprire la porta al dialogo» con Damasco:
«Tenendo conto del controllo che le nostre forze hanno sul 30% della
Siria e del fatto che il regime ora ha piena autorità su buona parte del
paese, appare chiaro che queste sono le uniche due forze che possono
sedersi al tavolo di negoziati e formulare una soluzione alla crisi
siriana».
A spingere i curdi, o gran parte di essi, a proclamarsi pronti al dialogo con il governo centrale è stata la classica goccia che ha fatto traboccare il vaso, ossia l’accordo raggiunto da Washington e Ankara per il ritiro delle forze curde da Manbij. Accordo
che consente a forze Usa (almeno 2mila uomini secondo alcune fonti) e
turche di pattugliare la città della Siria settentrionale e i confini,
sebbene siano state le Sdf a strappare nel 2016 la città all’Isis al
termine di un’offensiva costata pesanti perdite.
Un’ intesa letta come un tradimento delle aspirazioni curde
che gli Usa avevano fatto capire di voler aiutare a realizzare, almeno
in parte. Invece non appena l’Isis è crollato in Iraq e Siria
grazie anche al sacrificio dei combattenti curdi, l’amministrazione
Trump è tornata subito ad assecondare i desideri della Turchia membro
della Nato anche per allentare le tensioni con Ankara emerse negli
ultimi anni.
A preparare il terreno alla possibile apertura di colloqui
ufficiali tra curdi e governo centrale, è stata anche l’intervista
rilasciata il mese scorso da Assad alla rete televisiva russa Rt.
Facendo uso del bastone e della carota, il presidente siriano ha
lanciato una sorta di ultimatum ai combattenti delle Sdf: «Siamo
disposti ad aprire le porte del negoziato perché la maggior parte di
loro sono siriani che amano il loro paese e non vogliono essere
marionette degli stranieri – ha detto Assad – Altrimenti, ricorreremo
alla liberazione di quelle zone con la forza, è la nostra terra, è
nostro diritto e nostro dovere liberarla. Gli americani devono
andarsene, in qualche modo se ne andranno».
Dovessero andare in porto i negoziati per lo status del
Rojava e del nord della Siria tra Dsc-Sdf e il governo, si potrebbe
aprire la strada a una soluzione vera per la Siria.
Tenendo conto anche che le forze armate governative, dopo aver
ripreso il controllo dei sobborghi meridionali ed orientali di Damasco,
sono ora impegnate a strappare il sud del Paese alla galassia di gruppi
jihadisti e qaedisti che da anni ha il controllo dell’area.
Damasco è pronta a lanciare un’ampia campagna militare non appena
avrà ragione dei miliziani dell’Isis che tengono il controllo della
città di Sweida. L’esercito siriano inoltre sta rafforzando la
difesa antiaerea vicino alle Alture del Golan, dispiegando il sistema
russo antiaereo Pantsir in grado di contrastare con più efficacia i raid
dell’aviazione israeliana.
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