di Michele Giorgio – Il Manifesto
Non fidarti, Trump ti
tradirà come ha tradito noi. L’Iran, ferito dal ritiro degli Stati
Uniti dall’accordo internazionale sul suo programma nucleare (Jcpoa) e
di nuovo bersaglio di pesanti sanzioni americane, ha provato per due
giorni a mettere in guardia Kim Jong Un.
Lunedì era stato Bahram Qassemi, portavoce del ministero degli
esteri di Teheran, ad invitare la Corea del Nord a «stare molto
attenta». Ieri è stata la volta del portavoce del governo di Teheran,
Mohammad Baqer Nobakht. «Siamo davanti a una persona (Trump) che,
anche su un aereo, fa marcia indietro rispetto alla sua stessa firma.
Non so con chi stia negoziando il leader nordcoreano. Ma questa persona
non è un buon rappresentante per gli Stati Uniti», ha avvertito
Nobakht riferendosi al passo indietro americano dall’accordo firmato
nel 2015 dai cinque membri con diritto di veto del Consiglio di
Sicurezza dell’Onu (più la Germania), con il pieno appoggio del
precedente presidente americano Barack Obama.
A Teheran la preoccupazione è che, chiuso per il momento il
dossier nordcoreano, l’amministrazione Trump concentri ora tutta la sua
aggressività in politica estera sul “nemico” iraniano, sotto la spinta
anche delle pressioni del governo israeliano. Con il rischio concreto che lo scontro diplomatico ed economico si trasformi presto o tardi in un conflitto militare.
I timori degli iraniani sono ben fondati, d’altronde le parole di Trump non lasciano dubbi. «Spero
che al momento giusto, dopo le sanzioni che sono davvero brutali,
l’Iran torni a sedere al tavolo dei negoziati; ora è troppo presto», ha
detto il presidente Usa dopo il summit di Singapore. I negoziati che ha
in mente l’inquilino della Casa Bianca hanno un unico obiettivo:
riscrivere il contenuto del Jcpoa del 2015, per inserirvi
forti restrizioni non solo alle attività nucleari ma anche allo
sviluppo di missili balistici da parte degli iraniani in modo da
ridurre le capacità difensive ed offensive di Teheran, a vantaggio di
Israele che, forte anche del possesso (segreto) di armi nucleari, incrementerebbe ulteriormente la sua supremazia strategica nella regione
mediorientale.
«C’è un’amministrazione diversa, c’è un presidente diverso, un
segretario di Stato diverso... Per loro non era una priorità, per noi lo
è», ha detto Trump marcando la differenza in politica estera con
l’amministrazione Obama.
La difesa europea del Jcpoa è un muro di argilla. Teheran lo sa e
non si accontenta delle rassicurazioni dell’Alto rappresentante della
politica estera dell’Ue, Federica Mogherini, che pure si è esposta a
sostegno delle intese con l’Iran. Dietro le quinte alcuni
leader europei, a cominciare dal francese Macron, discutono di una
revisione dell’accordo in modo da accontentare almeno in parte
Washington e Tel Aviv, nonostante l’Iran abbia più volte ribadito che
le intese del 2015 non si toccano.
Riferendosi all’Iran, ieri il ministro della difesa israeliano
Lieberman ha detto di augurarsi che l’accordo tra Trump e il leader
nordcoreano «possa essere un buon esempio per altre nazioni e
popoli». Per Israele quell’intesa avrà riflessi immediati sulla linea
dell’amministrazione nei confronti dell’Iran, tenendo conto anche del
ruolo che giocheranno sostenitori del pugno di ferro come il segretario
di Stato Mike Pompeo e il Consigliere per la sicurezza nazionale John
Bolton.
Si indebolisce di pari passo la posizione del presidente
iraniano Rouhani, il maggior sostenitore in patria del Jcpoa. I
conservatori sostengono più che mai che “negoziare” con l’Occidente
sia stato un errore che l’Iran debba riprendere con il massimo della
forza il programma nucleare e lo sviluppo dei missili. Keyhan,
principale quotidiano oppositore della linea di Rouhani, ieri un
editoriale esortava a fare come la Corea del Nord che non è scesa a
patti ma ha sviluppato la bomba nucleare e i missili a lungo raggio
ottenendo un riconoscimento di fatto da Donald Trump, a differenza
dell’Iran che pur avendo firmato un accordo deve fare i conti con
minacce degli Usa, di Arabia Saudita e Israele. A conti fatti, dice Keyhan, usare “le buone” con l’Occidente è controproducente mentre con “le cattive” si raggiungono risultati concreti.
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