La povertà cresce ma non sembra essere una priorità dell’agenda politica.
L’Istat ha pubblicato i dati sulla povertà nel nostro paese che confermano l’aumento assoluto e percentuale di poveri e persone a rischio. I dati sulla povertà assoluta (quelli maggiormente amplificati dai mass media) ci dicono che le persone che vivono in povertà assoluta in Italia superano i 5 milioni nel 2017. E’ il valore più alto registrato dall’Istat dall’inizio delle serie storiche, nel 2005. Le famiglie in povertà assoluta sono stimate in 1 milione e 778mila e vi vivono 5 milioni e 58 mila individui.
Ma dovrebbero essere i dati sull’aumento della povertà relativa a preoccupare ancora di più.
La povertà relativa è infatti un parametro che esprime la difficoltà nel reperire i beni e servizi, riferita a persone o ad aree geografiche, in rapporto al livello economico medio di vita dell’ambiente o della nazione. Questo livello è calcolato attraverso il consumo pro-capite o il reddito medio, cioè il valore medio del reddito per abitante, quindi, la quantità di denaro di cui ogni cittadino può disporre in media ogni anno e fa riferimento a una soglia convenzionale adottata internazionalmente che considera povera una famiglia di due persone adulte con un consumo inferiore a quello medio pro-capite nazionale. Per una famiglia di due componenti è pari alla spesa media per persona nel paese, che nel 2017 è risultata pari a 1.085,22 euro al mese.
La povertà relativa si distingue dal concetto di povertà assoluta, che indica invece “l’incapacità di acquisire i beni e i servizi, necessari a raggiungere uno standard ossia un livello di vita minimo accettabile nel contesto di appartenenza, cioè nell’ambiente di appartenenza”.
Nel 2010 le famiglie che in Italia si trovavano in situazione di povertà relativa erano circa 2 milioni e 734 mila, rappresentando l’11% di tutte le famiglie residenti. Nel 2017 la percentuale di queste famiglie in povertà relativa è salita a 3 milioni 171mila, pari al 12,6% della popolazione.
In questi giorni sono stati pubblicati alcuni dati dell’Ocse sulla produttività, dai quali emerge che in Italia tra il 2010 e il 2016 le retribuzioni reali orarie sono diminuite al tasso medio annuo dello 0,38% a fronte di un valore aggiunto pari a +0,21%. Si tratta del quinto peggiore andamento sui 34 Paesi Ocse. Tra le motivazioni, c’è la crescita dell’occupazione ma solo in settori a bassa e bassissima retribuzione. In Italia tra il 2010 e il 2016 i tre settori con la maggiore creazione di occupazione sono stati infatti la ristorazione e servizi di alloggio (214mila posti di lavoro netti), le attività domestiche (cioè le famiglie come datori di lavoro con 135mila posti) e le attività di assistenza e lavoro sociale (88mila).
E’ l’indicatore del boom dei working poor, cioè dei lavoratori poveri, quelli per i quali non è sufficiente avere un lavoro per superare la soglia della povertà relativa.
Secondo i dati forniti dall’Eurostat i lavoratori poveri rappresentano l’11,7% della forza lavoro, ciò significa che 12 su 100 hanno un salario ma questo non è sufficiente per vivere. I cosiddetti working poor, sono lavoratori con un basso livello di reddito, divisi tra salari bassissimi e contratti a intermittenza. Solo tra i lavoratori dipendenti se ne contano oltre 2 milioni; gli autonomi sono invece 756 mila. Si tratta per lo più di giovani all’ingresso nel mondo del lavoro che non riescono a rendersi autonomi dalle famiglie, donne che devono fare i salti mortali tra un impiego spesso part time e la famiglia, lavoratori stranieri sottopagati
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